Rapsodia dei Proverbi
La parola degli anziani tramanda un patrimonio culturale filtrato lentamente attraverso i secoli, frutto unico, irripetibile ed originale di un retroterra specifico. Con questo intervento prenderò in esame il retroterra toscano, un mondo che a Firenze era composto da arguti fiaccherai e renaioli, nonché ciabattini che conoscevano Dante “a mente”.
Innanzitutto, in toscana sono fioriti proverbi originati da rivalità risalenti all'età comunale, all'insegna di uno spirito comunque caustico.
Ecco alcuni esempi: “Fiorentin mangiafagioli leccapiatti e romaioli”, dove il fagiolo indica in senso dispregiativo il giglio di Firenze. È questo un esempio di odio per la potenza egemone di quella che diverrà la “Dominante” granducale. Oppure vi sono espressioni nate in seguito a casi di cronaca. Ad esempio, nell'alto Medioevo la repubblica marinara di Pisa regalò a Firenze due colonne di porfido, che ancora oggi sono poste ai lati delle porte del Battistero del Ghiberti.
Tali colonne erano state acquistate nel lontano oriente bizantino. Arrivate a Firenze, furono trovate scheggiate, ma non si seppe mai se per beffa o a causa del trasporto avventuroso. Da qui il detto: “Fiorentini ciechi e Pisani ladri”.
Oppure esistevano anche motteggi a botta e risposta: “a Marradi piantano semi e nascan ladri”, ad esempio. Al riguardo, la pronta risposta era: “per aver ladri ancor più fini, abbiam preso semenza dai Fiorentini”. O ancora ci si ispirava a condizioni di vita disperate: “Brozzi Peretola Campi la peggio genia che Cristo stampi”. Le prese di giro non risparmiarono neppure le truppe rivoluzionarie francesi (i cd. “Nuvoloni”, dall'immancabile “Nous voulons” premesso ai proclami): quando ci si accorse che i liberatori, sostenitori dell'uguaglianza e della fraternità, venivano in realtà a rimpinguare le casse di Parigi, anche i più convinti giacobini si convinsero che “accio accio, ma gl'era meglio i' nostro Granducaccio”.
Oppure esistevano anche motteggi a botta e risposta: “a Marradi piantano semi e nascan ladri”, ad esempio. Al riguardo, la pronta risposta era: “per aver ladri ancor più fini, abbiam preso semenza dai Fiorentini”. O ancora ci si ispirava a condizioni di vita disperate: “Brozzi Peretola Campi la peggio genia che Cristo stampi”. Le prese di giro non risparmiarono neppure le truppe rivoluzionarie francesi (i cd. “Nuvoloni”, dall'immancabile “Nous voulons” premesso ai proclami): quando ci si accorse che i liberatori, sostenitori dell'uguaglianza e della fraternità, venivano in realtà a rimpinguare le casse di Parigi, anche i più convinti giacobini si convinsero che “accio accio, ma gl'era meglio i' nostro Granducaccio”.
Quello spirito caustico di cui si parlava si riversò anche contro l'unità d'Italia, conservata tramite le figure dell'esattore e del carabiniere: “Ai tempi dei Medici si pranzava per sedici, ai tempi dei Lorena, colazione pranzo e cena, ed ora, con tutto questo progresso, un po' di brodo e un po' di lesso”.
Alla stessa tipologia appartiene il seguente stornello: “se siam bravi e siam cortesi son felici i Piemontesi; ma con questi sulle rive d'Arno capitati e finiremo alla Specola [1] impagliati”. In queste parole possiamo forse leggere una reazione inconscia alla Firenze capitale d'Italia, orrendamente sventrata da architetti che volevano creare una nuova Torino (a sua volta rimodellata sulla Parigi di Napoleone III), senza capire affatto il fascino medievale del “secolare squallore” del centro cittadino “a vita nuova restituito” (il virgolettato, così ampolloso e solenne, è una citazione dall'arco di piazza della Repubblica, che alcuni turisti fotografano come antica vestigia romana!).
Fino ad ora abbiamo visto esempi di vario genere, ma nessuno ignora come tutte le leggende abbiano un eroe.
La favolistica toscana è incentrata soprattutto su un personaggio: Leopoldo II d'Asburgo Lorena, meglio conosciuto come “i'babbo” o “Canapone”. Ciò per vari motivi: innanzitutto, si trattava di un uomo dalla figura imponente, alto quasi due metri, e il color canapa delle sue basette dette vita al secondo soprannome qui riportato. A ciò si aggiungano la sua bontà di principe, nonché l'ottimo governo – confrontato ai tempi.
L'amore per i sudditi si manifestò in data 27 aprile 1859, quando egli scelse di andare in esilio per non provocare spargimenti di sangue inutili. Al suo alone “fiabesco” contribuirono, infine, le sventure familiari (morte di alcuni figli e della prima moglie, Nanny, ovvero Maria Carolina di Sassonia), che ne velarono per sempre la personalità di malinconia e tristezza. Piace qui riportare un aneddoto. Nell'ottocento, le condizioni igieniche erano critiche in tutta Europa: gettare la sporcizia in strada era la norma. A Bagni di Lucca, una povera vecchia non si accorse che sotto casa sua passava Leopoldo e lo imbrattò. Dopo averlo riconosciuto, si precipitò a chiederne il perdono ma Canapone, sorridendo, la rassicurò, esclamando: “- Meno male ero io, perché se fosse stato un suddito inglese a quest'ora avremmo una dichiarazione di guerra da Londra! -”.
A questo punto, posso provare a cercare una conclusione a mo' di morale?
Vai, “corre il nonno”: conoscere il passato, tramite tradizioni dimenticate, modi di dire desueti, storia minore comporta una parte importante di noi stessi, anche in via di antidoto ai conformismi di varia natura.
Rapsodia dei Proverbi. di Giuseppe Corsi - giuseppe.corsi.fi@gmail.com
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