Filippo di Gherardo sposa Bartolommea di Becchi
Spese matrimoniali nel 1361
MCCCLXI, al nome di Dio amen.
Ricordo di danari spesi quando menai molglie, cheffu adì XVIII di settenbre anno detto; e altre spese e ricordanze fieno scritte apresso in questo libro di miei fatti e chose come 'l mondo porta.
Adì XVII di settenbre 1361 Gherardo mio padre, Nicholaio di Bindo Nozzi, e io Filippo di Gherardo detto chonfessamo da Franciescho di Itocelo Becchi avere auto per la dota della Bartolomea sua figliuola e mia donna fiorini cinquecento d'oro, charta per mano di ser Benedetto Tenpi da Chastelfiorentino.
Di settembre, alla Camellina, popolo della Pieve a Settimo, a quattro miglia circa da Firenze, dove aveva una piccola ma bella possessione ed una casa, Flippo di Gherardo Nozzi buono ed agiato popolano prese in moglie la Bartolommea di Francesco Becchi lanaiuolo. Quella possessione consisteva in un podere tenuto per gran parte a vigna, con viottole erbose, non pochi alberi fruttiferi, e freschi canali, lungo i quali crescevano dei canneti. Alla casa, fornita di colombaia, era annesso un orto coltivato con diligenza, che rimunerava largamente le cure del padrone. Il Nozzi vendeva assai vino ed erano suoi clienti non pochi vinattieri fiorentini; ciò mostra che le vigne rendevano bene. Sulla strada maestra pisana, lì alla Casellina, aveva poi il Nozzi due taverne, una per tagliare la carne e l'altra per la vendita del vino: ed era solito appigionarle.
In questo luogo ameno volle dunque Filippo celebrare il suo matrimonio, intorno al quale ci offre interessanti note un libro di dare, avere, e ricordi, che egli tenne con precisione dal 1361 al 1381 e che esiste (fra gli altri del convento di S. Maria Novella) nell'Archivio di Stato di Firenze.
La sposa, con atto ai rogiti di ser Benedetto Tempi, ebbe in dote cinquecento fiorini d'oro: ed entrando nella camera nuziale, la trovò arredata secondo il costume con lettiera, cassa, cassone, lettuccio, saccone, materassa, piumacci, lenzuola, coltrice, coperte, due pancali, quattro carelli o guanciali, un tappeto, una sargia francesca.
Nulla dunque più del necessario; ma presso il letto era appesa ed abbelliva la modesta camera col sorriso dell'arte «una tavola di Dio, Nostra Donna Vergine Maria, e Santi» Le donora, o corredo, della Bartolommea furono cosa non di lusso e di troppa spesa, ma decentissima: robe, cottardite, cotte, gamurre (alcune con bottoni dorati o d'argento, o con nastro d'oro), camicie, sciugatoi, pannilini, due mantelli, due cintole d'argento, una borsa ricamata, un frenello di perle, qualche gioiello, due forzieri ed un forzierino a gigli, ossia con piccoli gigli scolpiti o dipinti.
Nella lieta festa domestica si fecero regali e si dispensarono mance. L'avola della sposa, monna Dea, ebbe dei veli: i servi, la cameriera, il sensale del matrimonio, il prete, e perfino un suonatore di cornamusa, recatosi a rallegrare la comitiva con armonie pastorali, ebbero in denaro quello che portava la consuetudine. La spesa totale per tutto questo fu di 26 fiorini. E fiorini 40 ci vollero pel convito preparato da un cuoco venuto apposta, di quelli che in simili circostanze sapevano farsi onore ed erano perciò ricercati assai. Si prese a prestito una quantità di bicchieri, scodelle, taglieri ed altri oggetti per la mensa e per la cucina, trattandosi di un pranzo al quale dovevano intervenire molte persone, e di una variata abbondanza di vivande; la famiglia Nozzi non voleva fare brutta figura.
Si cossero e si consumarono allegramente una vitella, venti paia di capponi, quindici di pollastri, venti di piccioni e dodici di tortore, oltre le uova, il formaggio, le spezie, le confetture, gli aranci e una bella sfilata di fiaschi di vino. I convitati, fra parenti ed amici, devono senza dubbio essere stati parecchi, ed oltre modo devono avere festeggiato la giovane coppia, che avevali chiamati ed accolti con tanta generosità.
Due altri mangiari, ristretti e confidenziali, con spesa di fiorini sei, furono fatti: uno quando la sposa Bartolommea tornò a casa dopo la visita ai genitori ed ai congiunti che teneva dietro alla celebrazione delle nozze, l'altro quando per le feste di Natale del 1361, e così a distanza di qualche mese dal matrimonio di Filippo e della Bartolommea, una parente, la Lisa figliuola d' Otto Nozzi, fidanzata essa pure, ricevette il forzerino dallo sposo Bertoldo Manfredi e furono da Filippo cortesemente invitate nella sua villa la ricordata avola monna Dea ed altre donne della famiglia.
Il forzerino (contenente il dono alla sposa, che gli statuti volevano (di un valore molto limitato) doveva essere, per disposizione degli statuti medesimi, di legno coperto di cuoio senza oro nè argento nè intarsiature. Come rilevasi da una memorietta nel libro del nostro Filippo, quel Bertoldo Manfredi avea beni a confine con i posseduti dal Nozzi nel popolo della Pieve a Settimo: e con assai probabilità la vicinanza, in quella verde e tranquilla pianura dove si vivea cosi bene, lo fece innamorare della Lisa e gli procurò un'affettuosa compagna. La Lisa, che non era l'unica figliuola d'Otto Nozzi, ma aveva altre due sorelle, una monaca in San Piero a Monticelli col nome di suor lacopa e l'altra chiamata Dada moglie di ser Bandino Lapi, sposò il Manfredi nel gennaio.
Ed ora mi piace concludere narrando che se a Filippo Nozzi fu concesso esser felice colla sua Bartolommea e colla famigliuola venutagli presto a far corona intorno, dovette tribolar non poco per un avvenimento non preveduto, dal quale fu messo in gravissimi dispiaceri ed imbarazzi. E fu il guasto dato alla sua prediletta possessione della Casellina nell'estate del 1363, quando in occasione della guerra de' Pisani contro Firenze le soldatesche inglesi stipendiate dalla Repubblica di Pisa corsero e devastarono il nostro contado ardendo e predando, tanto dalla parte di Signa che dalla parte di Prato. Il povero Nozzi, come tutti gli altri cittadini soliti dimorare in villa, erasi a tempo «fuggito a Firenze in caccia per campare la persona» e non avea potuto mettere in salvo le sue robe, che rimasero esposte alla cupidigia degli assalitori.
Egli, passata la brutta burrasca, si prese cura di registrare le spese occorse in acconcimi e restauri e nel ricomprare quello che mancava, e le chiamò malinconicamente «spese assai come bisongniano a chi vive in questa vita del mondo». Registrò anche il valore delle cose rubategli, accorgendosi che si arrivava alla somma di novanta fiorini almeno, e per lui non era poco. Ma dopo avere con pazienza registrato tutto ciò, se ne pentì ed evidentemente stanco e rattristato dette di frego alle dolorose memorie, scrivendoci sotto queste parole amare: «Vuoisi canciellare e darsi buon tenpo e di tutto lodare Idio senpre e lasciare fare a Dio, che sa e può quando e' vuole. Deo gratias, amen».
Tratto da Rivista d'arte anno V, Editori Alfani Venturi, Firenze, 1907
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