Ricordi di un ragazzo/2

Il Domatore di Pulci
Ricordi di un ragazzo nel 1890
parte seconda
 

"Il domatore di pulci e altri fatti della mia vita (Firenze)" di Ettore Allodoli, serie di memorie del giovane Ettore e segnalata dalla critica per il tono delicato e intenso, lo stile limpido e finemente ironico. Si tratta di bozzetti e memorie dell'infanzia dell'autore, ricordi di figure bizzarre, come appunto il domatore di pulci del titolo che impressionò la fantasia del bambino accompagnato dal nonno alla fiera domenicale.
 

E tutti insieme ci eravamo presentati davanti a un medico, poi ad altri signori che ci vestirono con vestiti certamente non fatti su misura, per chi troppo larghi, per chi troppo stretti (per quello che si riferisce a me, dichiaro che non potei assolutamente, nonostante tutta la mia buona volontà, abbottonarmi né l'ultimo né il penultimo bottone della giacca di tela che mi fu consegnata, e ad ogni passo che facevo mi pestavo i pantaloni).
Poi ci mandarono per quella sera a dormire sopra un po' di paglia, in una specie di casa, non molto bene in arnese. Veramente, una simile avventura non aveva nulla di straordinario; il mondo s'era rovesciato; nessuno poteva più restare a casa, e quindi.... Ma quelle benedette pulci, quella vecchia Firenze dell'infanzia avevano suscitato strane, pericolose illusioni... Ad ogni modo, eravamo una ventina in cotesto dormitorio a paglia, e c'era chi già tranquillamente si preparava a dormire, e chi, beatamente sereno, già russava rumorosamente. Di quelli ancora svegli, nessuno aveva voglia di discorrere, e rivoltandosi di qua e di là ciascuno pensava ai casi suoi.
Era uno stanzone molto grande, quello; con le pareti che erano state bianche, ora imbrattate di sudicio, di ditate merdose, di parolacce, di figuracce; e in alto, molto in alto, attaccata al soffitto, una lampadina elettrica che mandava una luce debolissima. Nel mezzo, uno scalèo, per potere arrivare lassù, all'occorrenza. Accanto a me c'era un individuo molto buffo, piccolo, con un gran testone sulle spalle, che durante la cerimonia della vestizione e della riduzione ad un sol tipo di tanti abiti e foggie diverse di calzoni, giacchette e cappelli non aveva fatto altro che ciarlare e dire e chiacchierare con quella petulanza insistente nel frizzo che è propria dei nati all'ombra del Cupolone.
Ci aveva fatto ridere, raccontando le sue sciagure, la sua vita di cameriere nelle trattorie secondarie e di tavoleggiante nei caffè. Si riconosceva la sua professione dallo sforzo che faceva a camminare appoggiando in terra i suoi piecciocci.

Avanti di sdraiarsi su quella paglia trita e polverosa, era andato a prendere alcune gavette di minestra avanzata e le aveva offerte a questo e a quello, gridando con la sua voce in falsetto: « Un manzo brasato, un contorno di fagiolini, due uova alla cocca; mi raccomando quel tortino di carciofi, quella testina, quel sarcrautte », e con la stessa smorfia agli angoli delle grosse labbra ripeteva, ad ogni nuova faccia che si trovava accanto, che cotesta improvvisa chiamata alle armi l'aveva rovinato, perchè la moglie era all'ospedale, essendole calata l'ernia, e lui doveva spendere una lira al giorno per una vecchia che gli guardasse in casa i quattro figliuoli piccini.
Le sue grida sguaiate e le sue parole piagnucolose cadevano sulle anime sospettose e inquiete con risonanze strane, irritanti e inutili come gocciole grosse e rade al principio d'un acquazzone estivo, sur una strada piena di polvere; che la goccia arriva con tonfo sordo soltanto a sollevare un polverio e non tocca il terreno e s'impastriccia in sudici blocchetti di mota rimbalzanti e appiccicosi.
Ora anche lui (proprio accanto a me s'era messo) dormiva, o almeno pareva, ma non russava. La sua faccia buffa, piegata sul petto, all'incerto chiarore, metteva in evidenza un nasone bitorzoluto, grottesco, che sembrava si sollevasse e si abbassasse ad ogni respiro dell'uomo; nasone che spiccava di tra il buio e di tra le faccie assopite, nel silenzio terribile di quella notte d'estate rotto ogni tanto dagli schiamazzi della strada su cui s'affacciava una finestra alta da terra, munita d'una solida inferriata. Vociacce e canti rauchi, qualche fischio prolungato, un rapido scalpiccio di piedi frettolosamente allontanatisi nelle tenebre. A tratti, dello stanzone attiguo, venivano rutti, bestemmie, e un lume di candela filtrava di là fino al limite della porta; c'erano alcuni che giocavano a carte, e si sentiva il tintinnio dei soldi e un rapido vocìo, parole di gergo seguite da silenzi lunghi e impressionanti.

In quella mezza veglia, con la testa come svanita in un sogno di febbre, e le guance affocate dall'insonnia aspettavo che le ore scorressero nella notte. E mi devo forse essere assopito per qualche momento, quando mi svegliai per un rumore sordo e soffocato come di una vescica sgonfiata come di una pelle spaccata. E altri si svegliarono e... guardammo in alto e ridemmo. Quasi in cima allo scalèo c'era una forma umana, in mutande e in camicia che, con precauzione, ridiscendeva gli scalini. Fu tutto un subbuglio, uno schiamazzo, un urlìo. Era il Ballòri che, arrivato a terra, con la sua solita smorfia sogghignò: « che dovevo scoppiare? Per rispetto al signore (e mi accennava) son salito sulla scala. Così il puzzo riman lassù....». 

Gli altri ripresero a ronfiare; uno, di aspetto mite e malinconico, non potè riaddormentarsi e sospirava. Poi si lamentò a voce alta che gli davano noia le pulci abbondanti su quel tritume di paglia. « E quando la sentirà il morso delle cimice ? — interruppe serio serio il Ballòri. Ma l'altro non rispose. Io gli avevo messo una luce nel cervello, un ricordo lontano al cui tocco improvviso quello si scosse, si ridestò e sorrise. Gli avevo ricordato che tanti anni prima io m'ero estasiato ai salti ammaestrati e intelligenti di pulci vestite da ballerine; così in quel dormiveglia, in quel ronzìo di rumori e di cose e di suoni prossimi e lontani che mi turbinavano nella testa avevo lanciato su di un altro il ricordo che custodivo gelosamente dentro di me : e questa volta non già il sorriso del compatimento o d'incredulità del dubbio mi risposero ma una voce (mi parve quella d'una umanità dolorante) che rievocò anch'essa, a tratti, con pacato e nostalgico rimpianto, la bottega di Via del Corso, la scatola di vetro, il ballo diabolico di quei puntini neri.....

Risentivo fuori di me la mia anima che mi parlava con quella voce flebile e mite: poi l'albore di una debole luce e un rannicchiarsi delle ombre negli angoli di quella fetida stalla e più intensi rumori al di là della strada e un rotolio di carretti e voci rapide sotto l'inferriata interruppero il lamentìo di quella voce e il pensiero mio; l'altro si addormentò ed io cercai d' immaginare come avrebbero passato cotesta notte e quella dopo e le seguenti quei due, l'uomo in poltrona e la donnina arguta, ancora gli stessi come tanti anni prima quand'io avevo raccontato loro delle pulci ammaestrate.
(Solo il sor Giuseppe non c'era più ed era andato ormai a Trespiano a rimpiangere sotto terra le passeggiate col nipotino, le quarantore e il loggione di Pagliano).
Io avevo percorso una vita e loro eran rimasti sempre fermi. E soltanto ora, dopo parecchie di coteste notti, essi, soli soli questa volta, avrebbero ripreso il cammino segnato dal destino che pareva averli dimenticati per tanti anni e che ora li avrebbe riafferrati per sempre e travolti nell'ultima bufera. Pensavo con tenerezza a quelle teste tremolanti, sebbene l'angoscia mi serrasse da presso, perchè sapevo che se essi ricominciassero a ripercorrere le vie della loro vita sarebbero perduti; ma chiusi un po' gli occhi, per la stanchezza della notte insonne. Poi tutti sobbalzammo per uno stridulo lacerante suono di tromba che investì quei corpi raggomitolati e pigri, quelle deboli anime gelide e chiuse in una dolorosa miseria. Mi parve allora di aver sognato un'altra volta. E nella confusione di chi si alzava e si stirava e bestemmiava e sbadigliava non ritrovai più, fra quelle voci irate, quella fraterna che, poco prima, nel silenzio della notte, aveva rievocato con me il ricordo delle pulci ammaestrate.

Parte Prima

"Il domatore di Pulci, e altri fatti della mia vita" di Ettore Allodoli, Casa editrice La Nave, 1922, Firenze

Altri articoli
I Fiorentini al Caffè di Collodi
I Fiorentini al Caffè di Collodi

Carlo Lorenzini in arte Collodi ci racconta con ironia e simpatia di alcuni caffè di Firenze.

Dalla Cina con splendore nel 1888
Dalla Cina con splendore nel 1888

Il Celeste Impero in miniatura, fu inaugurato il 4 Febbraio alla presenza delle autorità cittadine e di S.A.R. il Duca di Leuchtemberg...

Schiavitù a Firenze
Schiavitù a Firenze

Livorno, XVII secolo: tolleranza religiosa, lusso turco. Visita di Seignelay, ricca storia, ereditata dal Granduca.

Le diversità tra noi e loro
Le diversità tra noi e loro

La massima dice che tutto il mondo è paese, ma non impedisce che ogni paese abbia usi tutti suoi proprii.