Teatro Alhambra, scomparso

Teatro Alhambra.

Il Teatro Alhambra, inaugurato nel 1889, parzialmente distrutto da un incendio nel 1890 e restaurato nel 1900, nel 1910 fu ampliato ulteriormente da Adolfo Coppedè con un nuovo grande teatro all'aperto capace di ospitare diecimila spettatori: la struttura era composta da un salone per concerti, un ristorante, un teatro all’aperto, una sala cinematografica e un padiglione per il gioco della pelota.
L’intero complesso venne raso al suolo nel 1961 per la costruzione della sede della Nazione; di questo luogo magico e dimenticato non restano che la sala cinematografica su piazza Beccaria (l’attuale Astra2, adesso chiuso) e l’uscita secondaria del teatro che è su Borgo la Croce (adesso inglobata nel palazzo Grottanelli).


Paradiso Moresco
Giorgio Batini
"Se Firenze non ebbe, come Granata, i sovrani mori, ebbe tuttavia un’Alhambra con relativa, e fantastica, architettura moresca. L’ebbe sul finire dell’800, occupò una parte del giardino dell’antico palazzo Lagerswetra piazza Beccaria e il viale Carlo Alberto (oggi viale Giovane Italia), si riempì di costruzioni moresche, e vantò ma un piccolo attraentissimo palcoscenico sul quale si esibirono cantanti e sciantose, macchiettisti e prestigiatori, illusionisti, equilibristi, ginnasti, e finanche cani ammaestrati. Il 12 novembre del 1892 il coraggioso aeronauta Cesare Antoniucci si staccò dal giardino dell’Alhambra, alla presenza di una grande folla, per effettuare un’ardita ascensione con l’aerostato Città d’Ancona”.
 

I nuovi e suggestivi locali del Café-chantant erano stati inaugurati il 7 giugno 1889 con numerosi inviti alla cittadinanza inoltrati dallimpresario T. Montelatici e dai suoi soci, e l’ambiente incontrò subito un grande successo. Ebbe un pubblico scelto (uno dei frequentatori era il Duca d’Aosta con i suoi ufficiali) e fese ottimi affari, ma poi chiuse, per riaprirsi di nuovo, per chiudere ancora, e subì diverse trasformazioni. Il 12 ottobre del 1890 vi si tenne un gran banchetto di 560 coperti in onore di Felice Cavallotti. Poi ci fu un grosso incendio che distrusse una sala ed altre parti del caffè – concerto, tanto che i15 dicembre del 1890 fu organizzato uno spettacolo a beneficio degli artisti, dei camerieri e degli inservienti rimasti disoccupati.

La riapertura avvenne il 24 gennaio 1891 (“la sala – scrisse un cronista – è risorta come la Fenice, da un po’ di cenere, sempre più bella…). Tra i molti avvenimenti che si svolsero all’Alhambra è da registrare una grande Fiera Artistica Industriale in favore della Società Protettrice dei Fanciulli che si svolse il 28 gennaio nel 1894 e che vide l’intero giardino riempirsi di pagode, chioschi, gallerie, anch’esse intonate allo stile decorativo arabo; il 21 febbraio dello stesso anno vi fu un una grande festa da bello. Sui giornali troviamo altre notizie: il 6 giugno del 1895 [1] si dà notizia, ad esempio che il torrino dell’Alhambra (tra il salone ed restaurant) è rimasto danneggiato dal terremoto: il 4 ottobre del 1900 si dice che il teatro – giardino è chiuso per lavori di restauro; il 18 marzo del 1908 “l’egregio Oreste Capaccioli si dimette dalla direzione che ha tenuto per tre anni e cede il posto all’antico e popolarissimo direttore Arturo Lisciarelli”; il 28 marzo del 1910 si parla di nuove trasformazioni; nell’aprile del 1921 dei lavori effettuati dall’architetto Coppedè[2]; nel giugno del 1921 dell’inaugurazione del nuovo teatro con l’Aida. Di quel tempo è anche la costruzione della “Pelota” dove si esibivano i giocatori baschi. In alcuni periodi l’Alhambra ebbe anche una pista di pattinaggio, nonché locali adibiti al cinema (uno di questi cinema ebbe l’ingresso dal viale Carlo Alberto, un altro era ubicato ove attualmente è un istituto di credito, un terzo fu aperto in piazza Beccaria).

Nelle foto vediamo, tra le costruzioni in stile moresco, alcuni alberi tuttora esistenti: i camerieri indossano corte giacchette, grembiuloni alla francese e portano alla cintura una borsa di cuoio per le riscossioni. Non mancava il personale intonato alla decorazione, di provenienza esotica, cioè, e vestito all’orientale con tanto di fez in testa. […]
[…] L’Alhambra non era certo un locale peccaminose, raramente vi accadevano incidenti (uno fu provocato da un signore che si divertiva a lanciare mollica di pane contro altri avventori), l’ambiente piccolo borghese della città ci vedeva, o voleva vederci, un pizzico di “peccato”. In “Firenze presa sul serio” di Augusto Novelli [3], che è di quell’epoca, il capitolo riguardante L’Alhambra è intitolato “Un ambiente pericoloso”. 

Leggiamo un poco anche a noi: “Di fronte ai Pratoni della Croce [4], quasi vergognoso, quasi cacciato, a quella estremità per non fare il viso rosso, esiste un locale dove si può fare un’ora più tarda. Fin dal suo nascere cotesto ambiente prese il nome di “Alhambra”, e restò aperto per poco; si chiuse, si riaprì e si chiuse di nuovo. Adesso vive. I giovanotti che per tre o quattr’ore, e magari per tutta la notte, amano di trovarsi a Parigi, a Londra, o a Vienna, vanno lì, e fanno finta di fare la vita. Lo spettacolo comincia verso le nove, nel café-chantant; e continua fino all’alba nel ristorante. Frequentano anche molte signore per bene, per vedere qual è la chanteuse più in voga, e anche per fare dei confronti… Spesse volte le signore per bene arrivano a fare il vino rosso…”. Nel locale, l’esercito era sempre ben rappresentato, e i giovani ufficiali andavano in visibilio allorché le ballerine gettavano “le gambe ai cinque cieli”, con gran rammarico delle castigatissime signore per bene, le quali segretamente si dolevano di non poter dimostrare di non temere paragoni".
Giorgio Batini [4], "Album di Firenze" del 1975

[1] Il terremoto di Firenze del 1895 è stato un evento sismico verificatosi il 18 maggio alle ore 20:55:12 italiane nel capoluogo toscano e nell'area del Chianti fiorentino a sud della città. La magnitudo momento stimata di quell'evento è stata di 5.4 della scala Richter, mentre l'epicentro stimato è stato nel distretto sismico denominato Zona Chianti.
[2] Luigi "Gino" Coppedè (Firenze, 26 settembre 1866 – Roma, 20 settembre 1927) è stato un architetto, scultore e decoratore italiano.
[3] Augusto Novelli (Firenze, 17 gennaio 1867 – Carmignano, 7 novembre 1927) fu un drammaturgo, giornalista e scrittore italiano.
[4] "Pratoni della Zecca", un'albereta che il Poggi aveva previsto per magnificare la vista dalla collina di San Miniato verso piazza Beccaria e viceversa. Alla biforcazione dei viali Giovine Italia e Amendola, si affaccia l'edificio che ospita l'Archivio di Stato, nel luogo dove fino al 1977 sorgeva la Casa della Gioventù Italiana del Littorio di Firenze.
[5] Giorgio Batini è uno dei più popolari giornalisti e scrittori toscani. È nato il 25 agosto 1922 nella campagna fiorentina.
Laureato in legge, è stato capocronista e inviato de «La Nazione», corrispondente e collaboratore di importanti giornali per oltre mezzo secolo, ha vinto prestigiosi premi giornalistici, ha firmato oltre cinquanta volumi sui più diversi temi dall’arte all’antiquariato, alla storia, alla natura, alle tradizioni, al costume popolare, al folklore, agli itinerari turistici, alle curiosità di Firenze e della Toscana. Ben noti sono i successi ottenuti con volumi su particolari argomenti come i fantasmi italiani, il brigantaggio, le lapidi singolari, le scritte antiche sui muri, le faide comunali, le abitudini degli Etruschi, gli eventi prodigiosi avvenuti in Toscana. È stato a lungo direttore della rivista «Toscana Qui», di cui è stato tra i fondatori nel 1980. Batini si spenge nel sonno la notte del 7 aprile 2009 a Firenze.


 Sogno di una notte d’estate
di Enrico Mazzuoli, critico teatrale e scrittore
  "Album di Firenze", 1975 
 

"La mia iniziazione ai misteri dell’arte drammatica avvenne (ahimè, memorie lontane) in due teatri di quartiere di Santa Croce, l’Alfieri di via Pietrapiana e l’Alhambra di fronte a pretoni della Zecca.
All’Alhambra l’ambiente era così familiare che la stretta vigilanza dei parenti su di noi ragazzi, di solito rigorosissima extra moenia, veniva molto allentata. Mi era caro l’Alfieri, per questa domestica ospitalità, ma dell’Alhambra, nonostante fosse necessario rientrare nei ranghi e adattarsi alla domestica ospitalità, ma dell’Alhambra, nonostante fosse necessario rientrare nei ranghi ed adattarsi all’etichetta in uso, mi piaceva proprio tutto. Bisogna dire che si trattava del più grande, del più bello, del più elegante teatro – giardino d’Italia. Già l’accesso alla vasta en plein air infra le ombrose piante dei vialetti freschi e profumati aveva qualcosa di eccitante. Ci si avviava in corridoi di verzura, prima di poter ancora intravedere l’ampio sipario color ocra gonfiato dal vento, i passi attutiti dalla terra rossa, forse in omaggio all’architettura moresca dell’ambiente o per accentuarne il carattere esotico del resto temperato dalle piante, dalle spalliere di edera, dalle aiuole, dal gusto fiorentino di ingentilire senza leziosaggini.
La meravigliosa avventura serale (tale diventava ogni spettacolo all’Alhambra) poteva essere goduta da tre diverse angolazioni: tanti i settori della platea. A sinistra, guardando il proscenio, su uno spiazzo ghiaioso rialzato due palmi rispetto alla fila delle poltrone, snelli tavolini rotondi con attorno delle sedie, come al caffè: bibite e gelati venivano serviti durante l’intervallo. Anche la poltrona – le poltrone occupavano il vasto spazio centrale – c’era la possibilità di avere il servizio – bar, in mancanza del tavolino si abbassava dalla spalliera della poltrona davanti ad uno sportello per sistemarvi, insieme ai binocoli, il bicchieri di birra o la granita. A destra, infine, la novità più sensazionale: il ristorante.

L’entusiasmo non sembri esagerato. Erano i tempi di poche bizzarrie e le follie estive dei fiorentini si riducevano ad allegre serate nel locale omonimo sul Lungarno (Le Follie estive, appunto) poco distante dall’Alhambra dove, su una fetta di palcoscenico larga si e no due metri, soubrettine e soubrettone aggredivano lo spettatore in audacissimi due – pezzi. Venivano ammirate, queste peccatrici, anche dalla spalletta dell’Arno quando, di giorno, facevano il bagno nei pressi del ponte a San Niccolò. Si scommetteva sui cavalli, al gioco del pallone (col bracciale) e più che altrove la Pelotala vera pelota basca giocato in un campo coperto con l’ingresso da Borgo la Crocema al quale si poteva accedere (naturalmente pagando il biglietto) anche dall’Alhambra: il boato degli sportivi, lieti o delusi, copriva qualche volta, fra il disappunto generale, i gorgheggi di Nella Regini o di Isa Bluette.

A destra, dunque, l’angolo più seducente del teatro: su una terrazza, anche questa di poco più alta della platea, tavole imbandite, illuminate da paralumi a tulipano (la luce veniva smorzata all’inizio di ogni atto), tra le quali volteggiavano silenziosi camerieri. Si cenava mentre il principe Danilo corteggiava la non inconsolabile vedova o ascoltando il trillo del carillons, vigili custodi, nel paese dei campanelli, della virtù delle ragazze dalla cuffia inamidata.
E’ stato all’Alhambra che mi sono diplomato alla scuola dell’operetta e della rivista e la lezione non poteva essere più proficua visto che i refrain graditi venivano di frequente ripetuti (c’era, per esempio, un duetto di Gino Bianchi e di Jole Pacifici – “l’amore è un treno…“ – che veniva immancabilmente bissato quattro o cinque volte). Qui ho cominciato a muovere i primi passi (sempre da spettatore beninteso) nell’opera lirica: ricordo ancora un memorabile Mefistofele con Bianca Scacciati.

Enrico Mazzuoli, critico teatrale e scrittore

Un largo corridoio separava la fila delle poltrone da una gradinata di legno per i posti popolari. Addossate alla balaustra di legno per i posti popolari. Addossate alla balaustra pile di cuscini e panchetti di legno. Dei cuscini non si poteva farne a meno perché poltrone e sedie erano di ferroi panchetti servivano, specialmente a chi era in poltrona, per star più comodo appoggiandovi i piedi. Dietro la gradinata un grande riflettore sfrigolante faceva cambiare colore, col suo cerchio policromo, ai visi e agli abiti degli attori. Nella barcaccia, recinta da una siepe di bossolo impeccabili ufficialetti – non molto diversi nell’uniforme e nei modi dai luccicanti tenentini o granduchi del palcoscenico – occhieggiavano le coriste nonché le belle spettatrici; ridevano, scherzavano fino a quando – accompagnato da chissà quanti accidenti – arrivava il maggiore o il colonnello a render muta l’allegra brigata. 

Com’era bella l’Alhambra e come pareva rapida la lunga estate calda della mia infanzia! Un gran lusso, al ritorno, prendere (come si diceva allora) “un legno” e tornarsene felici a casaQuasi mezzo secolo fa, memorie davvero lontane".

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