Tratto da Carlo Morbio, Storie dei Municipi Italiani illustrate con documenti inediti, Milano, Toschi di Omobomo, 1838.
Questo riassunto fornisce un dettagliato e drammatico quadro di uno degli episodi criminali più noti nella Firenze del tardo Cinquecento. Vincenzo di Zanobi Serzelli, personaggio all’apparenza rispettabile, e il suo complice Matteo di Bartolomeo Santini si macchiarono di una serie di crimini che culminarono con la loro esecuzione in via Ghibellina, a Firenze, il 12 ottobre 1576. La storia di Serzelli è emblematica di come persone apparentemente devote potessero nascondere oscuri segreti.
12 ottobre 1576: in via Ghibellina, davanti alla porta di Pier Serzelli, venne eseguita la giustizia su un gruppo di ladri con un paio di forche nuove. Il primo a essere giustiziato fu lo stesso Serzelli, seguito da Pier Santini. I due salirono sul carro e confessarono i loro crimini, tra cui la falsificazione di serrature. Su questi famosi ladri ho raccolto altre informazioni, che riporto qui avendole ricevute da una fonte attendibile.
Intorno all’anno 1570, a Firenze, viveva un cittadino di nome Vincenzo di Zanobi Serzelli, che all’apparenza sembrava una persona rispettabile, ma che, come dimostrato dai fatti successivi, nutriva pensieri diabolici. Lo definisco rispettabile perché, come mi raccontò un anziano di nome Giulio Ruoti, morto circa cinque anni fa all’età di oltre ottant’anni, Vincenzo era solito frequentare compagnie rispettabili, specialmente quella di San Niccolò, conosciuta come del Ceppo. In questa confraternita, Serzelli non entrava mai senza inginocchiarsi a terra, e durante le processioni pubbliche desiderava essere colui che portava il crocifisso. Mostrava sempre una grande devozione esteriore.
Ho anche sentito da persone affidabili che, da giovane, Serzelli lavorava nella bottega di un mercante di lana, un'occupazione civile e rispettabile all’epoca. In questa bottega strinse una forte amicizia con un giovane lanaiolo di nome Matteo di Bartolomeo Santini, persona di buone maniere e di buona famiglia.
A loro si unì, in modo non chiaro, un terzo individuo di condizione più modesta, il cui nome non sono riuscito a scoprire. Potrebbe essere stato un servo o un messaggero al servizio di qualche magistrato, quindi lo chiamerò l'Incognito. I tre uomini cominciarono a frequentarsi assiduamente, partecipando a cene, giochi d’azzardo e frequentando case di donne. Essendo poveri, e vivendo al di sopra dei loro mezzi, si trovarono presto in difficoltà economiche. Fu allora che Serzelli, il più anziano del gruppo, disse: "Chi ha cervello non rimane mai senza denaro. A me non è mai mancato e non mancherà a voi, se seguirete il mio consiglio". Alla domanda su come ottenere denaro con facilità, Serzelli rispose loro con franchezza, dicendo che, in passato, si era ingegnato a rubare quel che gli serviva per le sue necessità e capricci.
Per giustificare le sue azioni, aggiunse: "Dio e la natura hanno creato i beni di fortuna per il beneficio dell’umanità. Chi ne ha bisogno, se li prenda. Quelli che possiedono più di noi non hanno fatto altro che prendersi la nostra parte, oltre alla loro. Privarli di una parte di questi beni non è rubare, ma è semplicemente recuperare ciò che ci spetta". Con questi ragionamenti, Serzelli portò i due giovani a perdere ogni scrupolo morale. Iniziarono a rubare piccoli oggetti, per poi passare a furti sempre più grandi, diventando i ladri più abili di Firenze.
Infine, furono scoperti e arrestati. Dopo una lunga prigionia e diversi interrogatori, Matteo Santini confessò i crimini e fu condannato a morte. Serzelli, invece, resistette alle torture e sembrava destinato a salvarsi dalla condanna.
Tuttavia, il giorno dell’esecuzione, mentre veniva portato al patibolo, Santini dichiarò: "Non accetterò la mia condanna senza il Serzelli al mio fianco. È lui il vero responsabile di tutti i nostri crimini". Questa affermazione portò a ulteriori indagini e venne alla luce un crimine commesso dai due: l’omicidio dell'Incognito, strangolato e sepolto in una tomba nel cimitero di Santa Croce. Durante le nuove indagini, anche Serzelli finì per confessare. Ammettendo l’omicidio dell’Incognito, rivelò anche di aver ucciso un altro uomo, un certo Rapetta, figlio di un macellaio.
Lo strangolò con una corda dopo averlo visto ritirare una somma di denaro, credendo di poterlo derubare. Quando si rese conto che il denaro non era in casa, Serzelli mise in scena un finto suicidio, appendendo il cadavere a una trave e lasciando uno sgabello ai suoi piedi, per far credere che si fosse impiccato per disperazione.
Alla fine, sia Serzelli che Santini furono condannati a morte. Furono portati al patibolo su un carro che percorse le strade più importanti di Firenze. Un servitore, con un'asta in mano, portava un cartello su cui era scritto: "Falsari, omicidi e famosi ladri". Le forche furono erette in via Ghibellina, all'incrocio con via dei Buonfanti (oggi via de' Pepi), vicino alla casa di Serzelli, dove lui e Santini avevano ucciso l'Incognito. Qui, il boia li giustiziò, prima Serzelli e poi Santini.
Bibliografia.
- Zorzi, Andrea, La giustizia criminale a Firenze nel Rinascimento, Firenze, Olschki, 1988.
- Cantini, Lorenzo, Saggio storico sulla vita privata de' Fiorentini: nei secoli XIII e XIV, Firenze, Presso Guglielmo Piatti, 1808.
- Contini, Gianfranco, Storia di Firenze - Il governo della città nel tardo Rinascimento, Torino, Einaudi, 1973.
- Barbadoro, Benedetto, Il sistema giudiziario della Firenze Medicea, Firenze, Le Monnier, 1938.
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