Breve storia del manicomio a Firenze

Breve storia del manicomio a Firenze

 

Fin dai tempi antichi si è cercato di studiare e gestire il problema della malattia mentale, in origine considerato fenomeno perenne ed inguaribile, sia che si trattasse di una manifestazione di disagio o, addirittura, del divino. 

Dal 1400 la città di Firenze propone alle famiglie meno abbienti l’affido del malato ai parenti (specie nonne e madri) in alternativa al ricovero; le famiglie nobili e più abbienti si rivolgevano invece all’apposito Magistrato dei Pupilli per togliere tutti i diritti civili al congiunto demente ed affidarlo così alla casa di cura (la stessa procedura veniva adottata in caso di delinquenti in famiglia).
Inizialmente il malato era trattato infatti peggio di qualunque criminale, non veniva distinto da vagabondi, giocatori di azzardo, prostitute, predoni e da tutte le altre figure non conformi alla società e alle sue leggi. Per la loro reclusione, non essendo accettati negli ospizi, il carcere delle Stinche si rivelava l’unica soluzione possibile.
A sancire il riconoscimento della pazzia come malattia mentale fu la nascita della Pia Casa Santa Dorotea[1] nel 1643, prima struttura-ricovero nata proprio in Toscana, a Firenze.
Per accedere alla Pia Casa (inizialmente aperta a tutti, più tardi solo alle famiglie più facoltose per insufficienza di spazi di accoglienza) era necessario l’assenso di una coorte di 12 uomini; coloro che non venivano ammessi saranno invece trasferiti in un secondo momento (1688) nella “pazzeria” di Santa Maria Nuova, modesto reparto dedicato al ricovero dei dementi, tenuto in custodia dallo stesso medico che li accoglieva. Le cure consistevano allora meramente nella somministrazione di cibo salutare (molte malattie e disturbi, come la pellagra, erano infatti conseguenza di una alimentazione scorretta e carente) e bagni caldi alternati a bagni freddi.
Le donne non potevano ancora essere ammesse in nessun tipo di struttura di cura; quanto ai bambini, i meno irrequieti si cercava di recuperarli e reintegrarli quanto possibile nell’apposita scuola Umberto I in zona D’Annunzio, mentre coloro ritenuti non “scolarizzabili” erano inviati al manicomio Bice Cammeo [via Aldini Firenze].
Nel 1980 Arezzo istituì il proprio “asilo dei dementi” (manicomio), fuori dalla città, considerando eventuali necessità di ampliamento, il minor onere finanziario per la provincia e la vicinanza con la stazione, che consentiva un più agevole trasferimento degli insani. Dopo la scandalo a luci rosse che colpì la struttura (si scoprì infatti che essa ospitava anche uomini pagati per stuprare donne), Pieraccini le diede nuova immagine conferendo nuova autorità al ruolo di direttore e nuove disposizioni comportamentali in materia di terapia, fra cui l’abolizione dei mezzi di contenzione e l’introduzione di sussidi alle famiglie perché si possa curare anche in casa il malato, con un vantaggio sia per lo stesso - che andava così a rimanere a contatto con l’ambiente familiare - e per la provincia, che spendeva meno per il suo mantenimento; questa ultima soluzione tuttavia non ebbe alla lunga molto successo, poiché nella gran parte dei casi le famiglie tentavano di inviare nuovamente il demente in manicomio.
Per meglio comprendere la terrificante realtà dei ricoverati del tempo, illuminante può essere la lettura del volume Gentilissimo sig. dottore, questa è la mia vita, in cui Aldagisa Conti, ricoverata a 26 anni in seguito al tentato suicidio per il disagio fornito dal matrimonio senza amore, spiega la propria situazione e la propria sofferenza al direttore del manicomio ove rimane ricoverata fino alla morte (sopraggiunta oltre i novant’anni).
Esso include anche la testimonianza fotografica di rito del percorso di ricovero del malato, che illustra in maniera cruda come quest’ultimo perdesse col trascorrere del tempo prospettive, speranze, e divenisse apatico e svuotato di ogni personalità.
Tale fenomeno è certamente conseguenza anche dei tremendi metodi di contenzione utilizzati all’interno dei manicomi, fra i più micidiali l’elettroshock, invenzione tutta italiana spesso usata al posto dell’insulina perché meno costosa; tale arma veniva impiegata in dosi massicce anche su bambini di pochissimi anni, provocando spesso morti precoci per arresti cardiaci. I primi psicofarmaci (anch’essi utilizzati senza scrupolo nei bambini) arriveranno solo negli anni ’50.
Carugi, primo psichiatra italiano e fiducioso nella guarigione degli infermi di mente, fu il primo ad abolire abolì tutti i metodi di contenzione presso i manicomi.


 

Il quadro di fine Quattrocento di Hieronymus Bosch chiamato Estrazione della pietra della follia mostra una fase dell'intervento nel quale uno stolto si fa convincere da un ciarlatano a farsi togliere dalla testa la pietra della follia.
Il quadro di fine Quattrocento di Hieronymus Bosch chiamato "Estrazione della pietra della follia" 
mostra una fase dell'intervento nel quale uno stolto si fa convincere da un ciarlatano a farsi togliere dalla testa la pietra della follia.

[1] La Casa Pia di Santa Dorotea dei Pazzarelli fu istituita nel 1643, per iniziativa del Carmelitano Alberto Leoni, con lo scopo di accogliere i malati di mente in povere condizioni, fino ad allora segregati nel carcere delle "Stinche". La sede prescelta per la sistemazione degli ammalati si trovava in via Ghibellina, al Canto della Mela, dove precedentemente era un collegio di fanciulle abbandonate affidate alla protezione di Santa Dorotea. Ben presto si presentò il problema del sovraffollamento, tanto che nel 1753 si decise di trasferire gli ammalati nell'antico Ospedale di San Niccolò del Ceppo che era stato soppresso nel 1541. Ma neppure questo provvedimento risultò definitivo finché nel 1785 il Granduca Pietro Leopoldo decretò il trasferimento di tutti i malati di mente nel grande Ospedale di Bonifazio, ufficialmente loro destinato nel 1788.
 

Antonio Manzi: Manicomio 1974 Disegno a penna biro su stoffa di lino cm 160x175
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