Lena, Nunzia e la sora capitale

Dialogo fra due comari camaldolesi
 
I
 
Alzino un tantino le sottane le nostre gentili leggìtrici. Siamo nei camaldoli, ossia nel quartiere che alberga la più povera gente di Firenze (1). È una di quelle  belle giornate, onde ci é spesso prodigo il mese di gennaio. La Nunzia siede sulla soglia dell’uscio di casa, secondo il costume delle donne camaldolesi, per .riscaldarsi al camminetto degli spagnuoli (?), e si occupa ad incannare la seta. Non passa mezz’ora, ed arriva tutta trafelata la Lena, e volgendosi alla Nunzia, le dice coll’affanno alla gola:
— Non sai tu, Nunzia, che ce di nuovo?
— Che vuo’tu che ci sia! miseria a iosa!
— Tu sbagli, Nunzia mia, e’ci son di bone nuove per noaltri poeri.
— Ora ci credo! Sarà tutt’erba trastulla, come gli é stato sempre.
— Questa vorta cara mia tu pigli un granchio a secco.
—  O che c’é egli dunque?
— Ti ricordi che no’s’é sempre armanaccato per sapere che diamine fosse questa capitale, che la vien di casa a Firenze, e non s’é mai potuto raccapezzare il sacco dalle corde?
— I’me ne ricordo sicuro: anzi tra me e me anche ora i’ mi vuotavo il cervello a pensare che cosa la potesse essere.
— Ebbene, i'l ho bell’e saputo.
— O dunque dimmelo anche a me, che tu possa cascar viva
— Sicuro che te lo vuo’dire, perché io de’ cocomeri in corpo non ne posso tenere. Questa sora capitale le una gran signora.
— Bum! cotesta le da pigliar colle molle, cara la mi’ Lena.
— Nunzia non dubitare, la sta proprio così.
— O che vien ella a fare a Firenze?
— La viene a far del bene guà. L’ha saputo che a Firenze si stianta tutti dalla miseria, e lei, poera signora, la viene a portarci un po’ di soccorso.
— Bada, Lena, te l’avranno data a bere.
— O ch e mi pigli per una bambina? Oramai i dentini mi son già spuntali e il bellico l’ho bell’e rasciutto, sai! Anzi m’hanno assicurato certi signori che vanno per la maggiore, che cotesta brava signora appena arrivata renderà tutti i pegni che sono al presto, e farà a tutte le poere donne un bel vestito.
— Dio signore! mi cascherebbe proprio il cacio su i maccheroni! Figurati Lena; i’ho impegnato perfino il coltrone del letto per mandare avanti que' poeri figliuoli; e poi guardami addosso, i’non ho altro che questo misero vestitnccio, che mi casca a brandelli da tutte le parti.
— O io, Nunzia, sto forse meglio di te? T’assicuro che quando m'hanno dato questa buona nova, m’è parso di toccare il cielo col dito e di tirar diciotto con tre dadi.
— Buon per te. Lena, che non hai figlioli, e puoi​ ficcare il naso dappertutto! I’al contrario non mi posso ma’ muovere di casale son confinata ai lavoro dalia mattina alla sera. Ma chi la sia questa signora non le l'hanno detto?
— I’non son voluto passar tanto da curioso, e non n’ho nemmeno domandato; ma i’mi figuro che la sia moglie di Vittorio Manuelle.
— L’ha a esser così senza fallo, perchè anche a’ Pitti mi dice il mi’ Nanni, fanno un gran Iaorare. Ma dimmi una cosa, che li saprà questa signora i nomi delle poere disgraziate?
— Se la un li sa, glieli faremo sapere noi; ti sgomenti tu per questo?
— Ma bada, Lena; la un sarà carne pe’ nostri denti; n’é venuta tanto della genie a Firenze, e non ci ha mai dato un corno nessuno! Se questa notizia la fosse vera la si dovrebbe segnare col carbon bianco.
— Tu sie’ pure la gran caca dubbi! E’ vien proprio la muffa al naso a parlar con tene! non sie’ mà’ contenta, e vai sempre a cercar il nodo nel giunco.
— Guà! che vuo’tu? l’ho sentito sempre tante belle cose, che poi le son ite tutte a vuoto, che ora a crederle i’vo co’piedi di piombo.
— Questa vorta s’i un dico vero son contenta che tu mi faccia sonar dietro le padelle da tutti i monelli di camaldoli. Pensiamo a far la supprica, che la roba mi par già d’averla in tasca.
— Ma per la supprica bisognerà spendere, che il sor Antonino gratis non scrive una riga, e io non ho nemmeno il becco d’un quattrino. Stasera sentirò​ il mi’Nanni se me gli volesse dar lui, e la supprica la si potrà fare un altro giorno; tanto cotesta signora non è ancora venuta.
— Facciamola un altro giorno, ma bada, i’un vorrei perder tempo. Chi dorme non piglia pesci.
— E d’altronde quando un ce ne? E nota che c’è la spesa della carta bollata!
— E lo so. Per una volta tiriamo via, qualche santo ci aiuterà.
— Ma Lena, i’ vorrei esser sicura, prima di spendere que’ pochi. Quando sono spesi un ce li rimette nessuno.
— Tu mi faresti proprio saltar la stizza colle tu’ sperpetue!
— Ma scusa Lena; o che ti costerebb’egli a arrivare dal sor Curato per sapere la verità? Il sor Curato tu sai pure che non é capace a metter di mezzo nessuno.
— Gua! Facciamo anche questa. I’son nata proprio, si vede, per legar sempre l’asino dove vuole il padrone.
— Dunque vacci subito.
— A gambe levale, guarda!​

 
 
II

Ciò detto la Lena, messasi la via tra le gambe, fu in un batter d’occhio alla porta dell'archivio della parrocchia , dove il Curato è uso di dare udienza, di fare l’elemosina e di segnare le fedi e gli attestati. Entrata che fu, senza tanti preamboli così si rivolse al Curato:
— Sor Curato, i’son venuta da lei per un piacere.
— Dite pure, buona Lena, che io son qui apposta per servire i miei parrocchiani.
— E’ m’hanno detto che la deve venire a giorni a Firenze una gran signora, che darà a’ poeri ogni ben di Dio, e prima d’ogni cosa la ci renderà la roba impegnata e farà a tutte le poere donne un bel vestito. La vede sor curalo che per noaltre camaldolesi l’è una vera provvidenza.
— Sicuro. Ci ho proprio piacere, mia buona Lena. Volete forse la fede di miserabilità?
— Nossignore, per ora non n’ho bisogno; ma domani o domani l’altro non sarà difficile ch’i venga a dargli anche quest’altro incomodo. Oro i vorre’sapere da lei se è vero quanto gli ho detto.
— Io per verità non ho sentilo dir nulla; ma potrebbe darsi. Bensì nessuno del popolo si è fatto vivo e non ho rilasciato nemmeno una fede.
— Cotesto un vorrebbe dir nulla, giacché i' sono stata la prima io a saperlo.
— E come si chiama quésta signora lo sapete?
— Sicuro guà! L’è la moglie di Vittorio Manuelie e si chiama la sora Capitale.
— Ma che avete pel capo. Lena! siete venuta a darmi la baia stamani?
— Motivo?
— Perchè mi pare impossibile che abbiate potuto bere così grosso. Se foste una bambina pazienza; ma​ grande e grossa e co’ capelli grigi, la mi pare troppo marchiana.
— Che forse la sarebbe una fandonia?
— Che venga la capitale è vero, ma non mica che sia la moglie di Vittorio Emanuele.
— Ma dunque qualche cosa di vero e’ c’è. Che la sia moglie di Vittorio Monuelle poco importa. Mi basta che venga la signora che m’hanno detto, sia chiunque, e ci renda i pegni e ci faccia il vestito.
— Ma non è neppure una signora, povera grulla che voi siete.
— O chi è ella dunque?
— È il governo che viene a stabilirsi a Firenze e lascia Torino.
— O se m’hanno detto perfino che si chiama la sora Capitale? Via sor Curato la un mi tenga più sulla corda, se la sentisse! l’ha ma fatto cascare a terra tutte le budella!
— E che ci posso far io, povera Lena, se v’hanno fatto prendere una cicala per una cornacchia? Ecco come sta la cosa. La città di Firenze da qui innanzi si chiamerà Capitale, perchè il re, i ministri e tutti gli altri caporioni che ora ci governano da Torino, verranno a stabilirsi a Firenze, e di qui comanderanno a tutto il regno.
— Dunque Firenze non sarà più Firenze?
— Firenze sarà sempre Firenze
— Ma se l’hanno ribattezzata!
— No, non l’hanno ribattezzata, santo Dio! le hanno aggiunto il nome di capitale; come dire la prima​ città del regno, perchè appunto a Firenze viene a risiedere il governo.
— Oh poveretta me! E di che m’ho io a fare del governo? Il governo, sor Curalo la scusi il termine i’ l’ho dove si dà al bossolo da spezie.
— Voi siete sempre di lingua lunga.
— Lingua lunga? la dico come la penso. Come si fa egli a voler bene a chi, in cambio d’aiutare il povero, lo impoerisce sempre di più? Se questa gente muterà dirizzone, allora sarà un altro paio di maniche; ma finché seguita a scannarci, la mi' lingua ne dirà sempre corna. Ma sì! Aspetta. Lena, che tu l’avrai! L’orso muta li pelo, ma il vizio mai.
— Nondimeno non è lecito di maltrattare le leggi.
— Adagio sor Curato, io non ho mentovato le leggi. La un mi scambi le carte in mano.
— Ad ogni modo è sempre bene di tenere la lingua a dovere.
— Ma se è vero! ci hanno ridotti tutti in sulle cigne! 
— Se non volete altro. Lena, vi prego a lasciarmi
in libertà, giacché stamane ho da fare per una settimana e non posso perder tempo.
— Niente altro, sor Curalo. La scusi saella dell’incomodo che gli ho dato, e Dio la mantenga sano.
E fatto un inchino si avviò di male gambe verso la casa della Nunzia.​

 

Via della Chiesa prima dei lavori degli anni '30
 
III

La Nunzia che stava aspettandola colle spine nel cuore, vedendola ritornare mettendo piede innanzi piede e col capo in seno, come un cane frustato, s’avvisò subito che le loro speranze fossero andate in fumo. Appena le fu vicina così prese a interrogarla:
— O ch’è egli stato Lena? Ritorni forse colle pive nel sacco?
— Lasciami stare, chè dalla stizza ho perso il lume degli occhi!
— Che forse non c’è nulla di vero in quel che tu mi dicesti?
— Nulla, proprio nulla!
— O chi è ella dunque la capitale?
— La capitale sa’ tu chi è? Gli è il governo che viene a portare a Firenze il suo bel viso.
— Tu non mi canzoni! Oh pover’ a noi! Dio ce la mandi buona! Se tanto ci sapea strigliare mentre era lontano, figurati come ci leverà il sangue dalle vene, quando l’avremo addosso!
—Che vuo’ tu che la vada peggio di così? Allora che gli resta a farci? Se tu non me lo dici tu, io un lo so  vedere davvero davvero.
— Non pensare, lo troveranno qualche ordegno per martirizzarci dell’altro! Ma te l’avevo detto io, Lena? Vai pur franca, quando le nove le son così belle le un possono mai esser vere.
— T’ha’ ragione. Proprio per noi un ce mai bene.
— O chi è slato che t’ ha dato a bere questa buffonata?
— L’è stato uno che fa sempre il Ceccosuda in su e in giù per le scale di
Palazzo Vecchio. Ma i’ me la sono legata al dito, e tu sai, Nunzia, che a me non muore la lingua in bocca, e quel brutto cosaccio me l’ha a pagare.
— I’scommetterei cento su di uno che questa frottola l’hanno messa fuori per dare spaccio a un po’di carta bollata. Non sarebbe la prima volta che tendono al povero codesto laccio. — Puol’essere benissimo. Non ti rammenti quante suppriche ci hanno fatto fare, ora con una speranza, ora con un’altra e poi siamo rimaste li come tante citrulle colle mani piene di mosche? L’eran tutte trappole per far quattrini colla carta bollata.
— Fortuna che questa volta non ci siamo cascate!
— Ma bisogna appiccare il voto a S. Venanzio.
— Lena da’retta a me da qui innanzi non correr tanto a credere quello che li danno ad intendere cotesti farabutti. Ricordati che chi va piano, va sano.
— Lascia fare a me, da qui innanzi aprirò tanto d’occhi, e farò orecchie da mercanti quando ra’impromettono Roma e Toma. Oramai i’ho conosciuto i mi’ polli. Addio sai Nunzia.
— Vien quà Lena, non le n’andare, i’ te ne vo’ dare un altra io delle buone nuove.
— Tu mi vuo’dar la berta, eh Nunzia! Ti vuo’ ricattare della bomba che ho sparalo io, ma Dio mi levi dal mondo se l’ho fatto apposta.
— Ecco che subito tu fai cattivi giudizii! Senti e poi giudica. Mentre tu eri dal Curato, è passata di qui la Crezia di Bobi il trippaio. Era nera come un tizzone! T’ha a figurare m’ha fatto insin paura. «O che ha’ tu Crezia, che hai un viso da fare spavento?» l’ho detto io; e lei di rimando: «se tu sapessi che diavolo bolle in pentola, tu saresti più brutta di me.»
E io: «O che ce egli? il finimondo?» Sa tu che c’è egli? m’ha risposto la Crezia; e’ c’è nientemeno che fuor di porta a S. Gallo fanno un’altra Firenze tutta di ferro e di legno, per ficcarci la povera gente a scoppiar di caldo allo stellone di State, e a morire stecchita nel Gennaio. Dice che no’s’ha a sloggiar tutti dalle case di materiale, nelle quali ci ha a venire certa gente di fuori via, brutta come il demonio, colle zanne fora come i cinghiali, coll’ortigli alle mani e a’piedi, col naso schiacciato e i capelli come gli stecchi, e poi gli occhi. Lena mia, non te lo so dire, due lizzi d’inferno! (2) O poveri fiorentini, v’avete fatto un bel lavoro a bociare viva a quello e morte a quell'altro! Hai sentilo eh! Nunzia? I'ti lascio, perch’i’ho fretta. Poer’a noi, come l’anderà a finire! «E così dicendo mi piantò lì in asso senza fiato di dire nemmeno — Addio Crezia — pareo diventata una statua di sale.
— Gesummaria! Che cosa tu mi dici! Ma sarà proprio vero?
— La Crezia la spergiura che l’è pura verità.
— Madonnina cara! altro che signorone a darci i vestiti e a renderci i pegni! Questi satanassi verranno a spellarci di sicuro. Meno male se si contentassero di levarci di casa solamente; ma se sono come tu mi ha’ detto ci mangeranno vivi come tante tigri.
— Per cotesto il governo ci difenderà; ci ha tanti sordati.
— Sie sie! tu l’avrai Rosina! A andar bene, il governo terrà il sacco e farà a mezzo con loro. T’un vedi come ci tratta? E’ ci ficca ne’ bariglioni di legno come le salacche!
— Io cotesto non lo so capir. C’é tanto materiale ne’ pressi di Firenze, e ci fanno le case di legno!
— Io poi lo capisco benissimo. Non l'hanno presa col popolo? Dunque addosso infino a che non ha tirato l’aiolo!
— E poi diceano che il popolo gli era sovrano?
— Già! il sovrano delle porci delle cimici e dei pidocchi.
— Eppure, Nunzia mia, l’è proprio vero: dal 59 in quà, quando comincionno a dire che no’ s’avea esser tutti ricchi sfondolati, che s’avea a legar le viti colle salsiccie e ci avevano a cascare in bocca le lasagne belle e cotte col su’ bravo sughillo e cacio parmigiano, non s’é più avuto un momento di bene, c’è cascato addosso ogni maledizione di Dio. O che se egli
fatto di male Gesù mio?
— Eh cara Lena, del male se n’è fatto tanto; ma qui in sulla strada i’un te lo posso dire. Te lo dirò con comodo un’ altra volta. Dio faccia e la
santissima Nunziata che non sia vero nulla di quello che tha detto la Crezia; ma se fosse vero. Lena mia, non è più aria per noi questa di Firenze. Io ho bell’ e fatto i miei conti; piuttosto che scoppiare per la schiena come
le cicale, o esser mangiata viva, i’ me ne’vò alla Falterona col mi’ Gigi, e buona notte Gesù che l'olio è caro. Lassù almeno non ci verrà nessuno a darci noia.
— E anch’io, guà, me la vuò battere da questi luoghi maledetti da Dio! Figurati s’ i vo’vedere i mi’ piccini ingollati da que' mostri come pere colte!
— Lena mia, preghiamo Domineddio che ci liberi e ci perdoni. Io domattina vo’ ire a far le mi devozioni: vacci anche tu; chi sa che il Signore non si muova a pietà di noi.
— Sicuro ch’i ci’vuò andare, e co’ piedi scarzi!
In questo mentre sopraggiunse altra gente e le due donne si separarono.​


1) Via di Camaldoli è una strada del centro storico di Firenze che collega piazza Torquato Tasso a Piazza de' Nerli, nella zona di San Frediano.
(2) Povere donne/ a forza di sentir dire che Torino è la Mecca si sono messe per la testa questi spauracchi!

Tratto da Gargano Gargani, scene della nuova capitale, Firenze, Tip. Simone Birindella, 1865

 

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