Gabriele e la sua Capponcina

Capponcina (Foto 1) e Gabriele D’Annunzio
(Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938)
“amor sensuale per la parola”
 

Nel 1898 la città del magnifico Lorenzo trova un nuovo amico il magnifico Gabriele. Qui cerca e trova una bella villa, la Capponcina [1] e ne diviene inquilino. Poeta come il Magnifico, anche D’Annunzio ama comporre le strofe risuscitando tanta beltà, eroismo e la gloria, e molte parole che le rappresentano vengono incise ovunque sui muri o pavimenti della villa. “Nella mia villa di Settignano per compiacere a un de’ miei spiriti allora dominante, io ritrovava senza sforzo i costumi e i gusti d’un signore del Rinascimento, fra cani cavalli e belli arredi” e, possiamo aggiungere senza problemi, belle donne. A differenza di Lorenzo de’ Medici, il Vate Gabriele non ha un soldo e spende sempre quelli che non ha, riempiendosi di debiti e nemmeno serviranno gli ammonimenti incisi a tenere lontano i debitori: “Noli me tangere” e “Cave canem ac dominum” [2], obbligando il Vate a un “volontario esilio” in Francia nel 1910. Sulla bella e dolce collina a Settignano, resterà solo l’eco dei suoi versi e chissà forse il fantasma dell’ultimo Magnifico. 

[1] Fu un veterinario abruzzese, un amico del poeta, il dottor Benignio Palmerio, a trovare a D’Annunzio la villa che cercava. Isolata nel verde, a mezza costa della collina settignanese, l’antica dimora del Capponi, appartenente ai marchesi Viviani della Robbia, piacque così tanto che volle aumentare l’affitto da mille lire all’anno a milleduecento. La volle anche sgombra dai mobili, per riempirla degli arredi più disparati, secondo il suo gusto e con il suo calcolato disordine. Il dottor Palmerio scrisse: “ … Ed ecco l’ampia sala d’ingresso, quella da pranzo, o meglio il refettorio, limitato, subito la vetrata d’accesso, da una leggiadra ringhiera di ferro che il poeta a scovato a Pallanza, con nel centro un riquadro con una biscia viscontea. In fondo, a sinistra, è la tavola da imbandire, di legno scuro, lunga e grave come nei refettori conventuali, con la spalliera alta, a sagome semplice, rettilinea. In alto, per tutta la lunghezza di questo solenne schienale, sono incise in oro le parole: “lege lege lege et relege – labora ora et invenies”. 
(Foto 2) La camera da letto di D'Annunzio alla Capponcina

Dopo il trionfale successo riportato dalla Figlia di Jorio il 2 marzo del 1904, al Lirico di Milano, unanimamente considerata un capolavoro, venne portata di nuovo delle scene come opera lirica. La musicò il barone Alberto Franchetti (Foto 3) su libretto di D’Annunzio stesso che eseguì numerosi tagli del testo. Nonostante la trepida attesa il debutto, alla Scala il 29 marzo del 1906, non riscontro il successo che tutti si aspettavano.

Gli anni della Capponcina (dove furono sicuramente composti, Il fuoco (1900) , e i primi libri delle Laudi ossia Maia-Laus Vitae, Elettra e parte di Alcyone sono stati fra i più fecondi della produzione dannunziana: per questi scritti si è parlato di “ora solare di Gabriele D’Annunzio”, ed in effetti sono gli anni che vedono la nascita di Francesca da Riminila figlia di Joriola vita di Cola di Rienzo, la Fiaccola sotto il moggioFedraLa navee Forse che si forse che no.

Il bellissimo spaniel (Teli-Teli) (Foto 4) che D’Annunzio aveva elevato a rango di letterato e filosofo, con il quale faceva lunghe conversazioni. Scrivendo a Gaspare Sarti, direttore della rivista “il cane” , D’Annunzio gli comunicava di avere un letterato fra i suoi cani, e cioè “Teli-Teli”: 
egli ha letto il vostro giornale e si propone di collaborarvi. Credo vi manderà qualche notizia dei miei canili. Ma temo che nasceranno polemiche e morsi…”. Lasciando Firenze, il poeta regalò lo spaniel ad un’amica, con una foto del cane ed una dedica: “il filosofo Teli-Teli (Foto 4) nel centro dell’universo che la sua dottrina rivelò”.

D’Annunzio amava frequentare l’Ippodromo delle Cascine, non solo perché era il più brillante protagonista della vita mondana di Firenze, ma perché era un grande appassionato di cavalli. Ne aveva sempre avuti molti e se li portava dietro ovunque andasse. Quando andava in Versilia, meta preferita in Toscana, spesso lo si vedeva galoppando sulla spiaggia, seguito da una muta di levrieri, portando spavento ai bagnanti: “ …Galoppi furibondi su sabbia elastica ove erano le tracce delicate dell’onda ritratta, delicate come le righe dentro le fauci dei miei levrieri…”.
(Foto 5) Il suo cavallo preferito “Malatesta” imboccò un triste destino nel giugno del 1911, venne venduto ad un renaiolo, e alcuni mesi dopo il vecchio e nobile animale cadde nella discesa del Ponte alla Carraia e si sventrò dalla stanga del barroccio che trainava.
 Agli inizi del secolo, di stanza sui colli di Firenze nella leggendaria villa dei Capponi, Mario Nunes Vais l’aveva raggiunto per riprendere esterni e interni di una dimora sulla quale l’Italia intera favoleggiava; e per riprendere il dandy con le mani bucate, in preda più che mai a un rovinoso bisogno del superfluo. Dalla consumata sapienza di chi si mette in posa e dalla maestria del fotografo conseguono splendide immagini. Datata “La Capponcina novembre 1906”, questa lettera di d’Annunzio a Nunes Vais rappresenta una testimonianza di inarrivabile eloquenza, che mostra allo scoperto chi non mai ha avvertito la macchina fotografica - “piccola nera prigione di metallo e di cristallo” - in termini di minaccia, ma anzi ne ha fatto uno strumento basilare della sua fortuna e insieme della sua scrittura:
Mario Nunes Vais il celebre fotografo riprese più volte il poeta, il quale fu sempre soddisfatto delle foto e lo elogiò nel 1906 in una lettera: “Come potrò io ringraziarla di queste tante belle immagini che Ella mi dona, mio caro amico? Vorrei conoscere la magia novissima con cui Ella riesce a compiere il veloce prodigio serrando uno spirito di sole nella piccola nera prigione di metallo e di cristallo. La macchina che prima non era atta se non alla rappresentazione brutale della realtà è oggi divenuta nelle Sue mani uno strumento d’infinita delicatezza poetica. In uno di questi volti, specialmente, sembra ch’Ella abbia tratto alla superficie la grazia stessa dell’anima e ve l’abbia resa visibile. Grazie per questo inatteso piacere, o artefice della luce e dell’ombra.”

Gabriele D'Annunzio durante il suo lungo soggiorno a Firenze, non di rado alla cucina ricercata dei ristoranti di lusso preferiva quella semplice delle trattorie, e non certo per questione di prezzo, visto che la sua mania di grandezza e la sua dispendiosità sono rimaste proverbiali. A Settignano frequentava la Capponcina dove gustava i saporiti manicaretti della cuoca Anastasia, quando invece abitava in Via Lorenzo il Magnifico era assiduo cliente di Gaetano Picciolo, dove erano famose le bistecche che il grande vate mostrava di apprezzare alquanto. Sempre in questa trattoria quando era accompagnato da Eleonora Duse faceva apparecchiare in un salottino dove pretendeva ci fosse sempre un vaso pieno di viole, un fiore che dedicava spesso alle sue donne.
Gli interni della Capponcina: mobili, quadri e oggetti preziosi saranno venduti all'asta nel 1911 in seguito alla bancarotta che costringe D'Annunzio all'esilio.
Dal 20 maggio al 13 giugno del 1911 venne tenuta un’asta pubblica che disperse gli arredi e gli oggetti raccolti alla Capponcina da D’Annunzio. Solo i libri del Vate si salvarono dalla dispersione. Nei primi giorni vennero venduti gli arredi meno rilevanti, al contrario in giugno vennero venduti i pezzi di maggior rilievo. Era stato proposto di trasformare la villa in un museo come ricordo della lunga permanenza del poeta, ma i molti creditori non vollero sentire ragioni e la vendita andò avanti fino all’esaurimento.
L’asta venne organizzata dalla ditta Gerardelli e Mazzoni, e richiamò una gran folla di compratori e estimatori del poeta che bollarono la vendita “volontaria” con “ignobile”, malgrado molti ostacoli fruttò oltre 120.000 lire. Molti testimoni giurarono che quando venne messo in vendita lo studio, un uragano di incredibile forza e fulmini si abbatté fra Firenze e la Capponcina, anche gli dei erano sfavorevoli all’asta?
Il grande seduttore D’Annunzio amava annotare in un diario il giorno in cui le amanti esordivano nel suo talamo
Quattrini alle nobili e facoltose amanti, il “sommo vate”, ne spillò tantissimi, soprattutto a quelle che lo amarono davvero. Tra le vittime (sentimentalmente e finanziariamente), la celebre attrice Eleonora Duse (“Vedo il sole e ringrazio tutte le buone forze della terra per averti incontrato”, scrisse la innamoratissima Eleonora, all’indomani dell’alba d’amore al “Danieli” di Venezia, all’uomo che l’aveva ammaliata) e la marchesa Alessandra Starabba di Rudinì, figlia di un illustre politico ex presidente del Consiglio (madre di due bambini, con un patrimonio immenso che raggruppava una grossa fetta di quello del padre politico e del marito morto) e Giuseppina Mancini anche lei ricchissima di famiglia.
 Eleonora Duse (Foto 6)
(Vigevano, 3 ottobre 1858 – Pittsburgh, 21 aprile 1924)

L’attrice visse alla villa la “Porziuncola”, vicina alla Capponcina, gli anni della sua tormentata relazione con D’annunzio, iniziata a Pisa nel 1896 e terminata nel 1904, a causa della sua sostituzione nella Figlia di Jorio. L’attrice aveva chiesto di rimandare la “prima” perché malata, ma D’Annunzio la fece sostituire nel ruolo di Mila da Irma Gramatica. Già all’inizio della loro relazione sia sentimentale che artistico la Duse aveva dovuto sopportare la personale umiliazione di non essere stata la prima ad interpretare la “Città morta” a Parigi nel 1898 ma bensì Sarah Bernhardt. Nel 1900 D’Annunzio fece pubblicare “Fuoco” dove, sotto il nome di Foscarina, la Duse venne “messo a nudo” come scrissero i giornali, i loro rapporti intimi; e quando le veniva chiesto perché non avesse impedito la pubblicazione di “Fuoco” lei rispondeva con una frase divenuta famosa: “Ho quarant’anni e amo”. Già molto provata per questo tormentato rapporto, nel 1904 come si legge nelle memorie di Benigno Palmerio [1], trovò la signora in uno stato di forte agitazione: “Si deve dar fuoco a questa casa, il tempio è stato profanato… Soltanto la fiamma può purificarlo… Il fuoco, il fuoco, subito!” Il dottor Palmiero riuscì a calmarla, e venne la spiegazione della Duse: in una camera destinata agli ospiti aveva trovato due forcine perdute da un donna coi capelli biondi, erano quelli della marchesa Alessandra Starabba di Ruridinì, il nuovo amore del Poeta, e, di lì a breve, ospite della Capponcina, dal 1903 al 1907. "Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché l’ho amato”, confiderà agli amici la grande attrice poco prima di morire.
 Alessandra Starabba di Rudinì (Foto 7)

(Napoli 5 ottobre 1876 - Convento delle Carmelitane di Paray-le-Monial a Parigi 2 gennaio 1931)

“Nike: un’amazzone”

L’avventura dannunziana inizia col primo incontro, quasi casuale nel foyer di un teatro romano, nella primavera del 1903, quindi con l’effettiva convivenza nel febbraio del 1904 – un anno di corteggiamento – e finirà nel gennaio del 1907.
L’amante-poeta chiamerà Nike (Vittoria) Alessandra per la sua classica bellezza. Alessandra ha varcato il cancello della Capponcina, la assai nota villa del poeta, una sera di febbraio, dopo una decisione rapida e netta, rompendo ogni indugio e gettandosi alle spalle ogni problematica morale e convenzionale.
Durò poco meno di un anno, il “sublime elisir erotico” di Gabriele e Alessandra, interrotto bruscamente da un brutto male che colpì la marchesa a 29 anni, costringendola a vivere per anni semi-paralizzata e imbottita di morfina, dopo ben tre interventi chirurgici. Il Poeta se la tenne in casa per altri due anni: una amante così ricca non poteva farla andar via. I biografi dicono che, in tre anni di convivenza.,il grande imbonitore D‘Annunzio spillò alla marchesa di Rudinì somme superiori dieci volte a quelle che aveva spillato alla Duse in nove anni.
L’intervento chirurgico avviene il 29 maggio 1905. E’ alla Capponcina da appena 15 mesi. Pochi giorni dopo sarà necessario un secondo intervento. Seguiranno giorni parzialmente sereni, ma l’incantesimo è rotto. Conversando descriverà al poeta questo tempo con i noti due versi di Lucrezio:

….medio de fonte leporum
surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angit

(in mezzo alle dolcezze nasce qualcosa di amaro che rattrista fra gli stessi fiori).
 Giuseppina Mancini (Foto 8)

Lunga è la lista delle amanti, ma tra queste ce n’è una che gli lasciò una ferita aperta nel cuore e nella memoria: venti mesi di «demenza afrodisiaca», ma anche sofferenza, nonché il ricordo di notte torrida, quella notte miliare, rimpianta fin sul letto di morte. Si tratta della contessa Giuseppina Mancini Giorgi, la «povera Giusini», la «piccola Giusini», alias Amaranta, alias Muriella, Fragoletta, Alis, Adel, Blinì, Sirocchia, Diamanta (il Vate era solito ribattezzare tutte le sue conquiste, perché «rinascevano in lui»). 
Lei era sposata con il conte Lorenzo Mancini, produttore di vini fiorentino. E proprio a casa del conte si ritrovarono, perché il nobiluomo faceva leggere i propri versi al Vate, ottenendone untuosi e strategici apprezzamenti. In realtà, D’Annunzio voleva guadagnare le grazie del marito per sedurne la moglie («una rosa bianca» «Ha i capelli di quel bruno rosseggiante che usavano per la chioma femminile i dipintori di statue nell’Ellade. Il colore della sua pelle mi fa pensare a quel marmo che nei templi di Delo», «occhi di sparviera e snella di figura», così la descriveva).

Giuseppina era afflitta da «tormenti religiosi, acuiti dalla sterilità, che considerava una punizione divina, forse al pari della malattia venerea che le aveva trasmesso il marito, grande bevitore con una passione per gli amori ancillari». Il «grande dono», come subito il Poeta definì la resa della donna, avvenne nel corso della «notte piena», nella quiete della Capponcina, a Settignano. Era l’11 febbraio 1907, una data destinata a diventare sacra nel calendario dannunziano. Ma la liaison, tra picchi erotici, gelosie, ripicche e crisi di coscienza di lei, fu anche burrascosa e distruttiva. A tal punto da minare la stabilità psichica di Giuseppina, che venne internata in una casa di cura. Era il settembre del 1908 quando venne ricoverata e D’Annunzio dovette ben presto rassegnarsi: la donna non volle più vederlo.

Come al solito il poeta trovò consolazione tra le braccia di un’altra amante.

Ritiratosi al Vittoriale, fu raggiunto da uno scritto del figlio del Picciolo, rispose con un telegramma il cui testo è una testimonianza del suo attaccamento all'arte della cucina:​
“Il tuo inaspettato messaggio risveglia i miei più dolci ricordi fiorentini stop. Ti mando quel che vuoi ma tu mandami per telegrafo la bistecca di tre quarti che mangiammo allora insieme col non dimenticabile Jarro. Stop. Abbraccio il babbo. Gabriele D'Annunzio.”


MOTTI INCISI SULLE PIETRE DELLA CAPPONCINA:

Numquam deorsum 
Mai in basso
Uno dei tanti motti latini prediletti dal «superuomo» d'Annunzio che lo legò all'immagine del fuoco le cui fiamme tendono sempre verso l'alto. Era dipinto su un parafuoco in lamiera di uno dei numerosi caminetti della villa, al centro di una fiamma ardente.
Et quid volo nisi ut ardeat? 
Cosa voglio se non affinché arda?
Motto biblico che il pittore bergamasco Moroni aveva scritto nel suo Ritratto di gentiluomo. D'Annunzio lo fece incidere sulla cornice di pietra serena della biblioteca della villa «La Capponcina». Divenne più tardi uno dei motti che doveva eccitare negli animi la passione per la patria.
[2]Cave canem ac dominum
Attenti al cane e al padrone
Ironica variante dell'avvertimento che si trova comunemente ai cancelli delle ville private. D'Annunzio pose la scritta, evidentemente destinata agli importuni - tra cui i numerosi creditori -, su uno dei due pilastri di pietra posti all'entrata della «Capponcina». Sull'altro era scritto «Noli me tangere». Nella villa, nascosta da una fitta parete di verde, i cani non mancavano di certo: per un periodo ce ne furono undici. D'Annunzio, noto per il suo amore per i levrieri, fece costruire per loro una casetta in mattoni rossi con vetri colorati, attrezzata di fognature e lampadine; sul tetto sventolava una bandierina con la figura di un levriere e la parola Fidelitas, scritta in rosso.
Ottima è l’acqua
Ripreso da un'ode di Pindaro, il motto piacque a d'Annunzio fin dai tempi della «Capponcina»: lo fece imprimere in lettere a rilievo smaltate in oro sul lavabo del bagno attiguo alla sua camera da letto.
Chi 'l tenerà legato?
Antico grido di libertà e di volontà di dominio, usato come motto gentilizio nel Rinascimento.
D'Annunzio lo fece incidere sulla porta d'ingresso della «Capponcina» a Settignano e su un giogo rustico proveniente dall'Abruzzo che fece appendere nel vano di un camino di pietra serena della villa. Accanto al giogo, si trovavano una falce e una vanga consumate dal lavoro e rami secchi con frutti di melograno, il frutto che ricorda la trilogia dei «Romanzi del melograno» iniziata con Il Fuoco, e mai portata a termine.
Il motto viene ricordato da d'Annunzio nella celebre lettera scritta ad Antonio Salandra il 30 luglio del 1915, nella quale chiede di togliere il veto posto dal Comando militare alle sue imprese aeree, considerate troppo rischiose.
Per non dormire
D'Annunzio riprese il motto dei marchesi Bartolini-Salimbeni che vide inciso sul loro palazzo di piazza Santa Trinità a Firenze. Al papavero che ornava lo stemma gentilizio, il Poeta sostituì un ramo di alloro.
Usato da d'Annunzio come stimolo al lavoro costante e «insonne», il motto divenne effettivamente l'insegna degli anni di maggiore e più felice creatività artistica, quelli trascorsi dal Poeta alla «Capponcina», la villa di Settignano, presso Firenze, dove egli abitò dal 1898 al 1910.
Il motto, scritto in rosso e circondato da foglie e bacche colorate di alloro, campeggiava al centro dei tondi di vetro di Murano che ornavano le porte e le finestre della villa; era impresso sugli architravi, sui fregi, le pietre e le maioliche che ornavano la lussuosa abitazione del Poeta e sui fogli della carta a mano dove egli scriveva. Per molto tempo d'Annunzio fu indeciso se adottare al posto di questo, il motto «Per non morire».


Altri articoli
Addio a Firenze, parte 2
Addio a Firenze, parte 2

In tranquille notti fiorentine, l'artista trae ispirazione e pace. Firenze, con la sua bellezza e storia, gli infonde forza.

Giuseppe Poggi
Giuseppe Poggi

L'architetto che ha ridefinito Firenze.

L'orrenda vendetta di Veronica
L'orrenda vendetta di Veronica

Dopo una vita di riscatto e di pentimento, Veronica mor, molto anziana, a Roma, a palazzo Salviati

Giornalai e giornalisti
Giornalai e giornalisti

Carlo Collodi con la sua nota umoristica parla dei giornalisti del suo tempo. Troviamo le differenze con quelli di oggi.