Il Secolo degli Ammazzati

Il Secolo degli Ammazzati

Se in ogni tempo vi sono state umane belve, non ce ne furono mai forse tante — almeno in società cristiane e civili — quante nel Seicento, nel «secolo degli ammazzati», come lo chiama il Ricci. Né il delitto era soltanto un triste retaggio del volgo; ma fioriva purtroppo anche tra' nobili e le persone cólte.
Per gelosia, per una semplice discussione cavalleresca cambiatasi in alterco, per un futile puntiglio di precedenza, due gentiluomini traggono le spade, o scaricano le loro pistole; e mentre 1'uno cade in un lago di sangue, l'altro fugge precipitosamente e ripara in una chiesa o m un convento, donde poi penserà a mettersi in salvo definitivamente, valicando il confine dello Stato. Le storie e gli oscuri diari di quel tempo sono pieni di fatti di sangue, gli uni celebri, gli altri ignorati, ma non perciò meno orrendi. È il secolo delle congiure e delle vendette. Il Falorsi in poche pagine di una conferenza ne ricorda parecchie famose. Pare che il delirio dell'esagerazione, che si manifesta nelle lettere col marinismo e nelle arti belle col barocchismo, si estrinsechi nella vita quotidiana con tremendi misfatti, che hanno, per cosi dire, anch'essi del barocco.
Sol perché Lorenzo Magnani, lettore di Diritto civile nello Studio di Pisa, ha più scolari di Federico Antinori, costui concepisce un'invidia cosi cieca contro il collega da aggredirlo, riducendolo quasi in punto di morte. «Armato di una coltella», in compagnia d'un suo servitore munito di pugnale, lo aspetta, appostato. Come il mite uomo, fatta la consueta lezione, esce dalla Sapienza «senza sospettare di alcun sinistro accidente», i due gli vanno incontro; e il mal capitato, inerme, tenta salvarsi fuggendo; ma è impedito dalla toga. Il servo lo ferma, voltandogli il pugnale alla faccia. L'Antinori intanto, stando per di dietro, gii assesta un colpo di taglio sul capo; e sebbene la vittima implori pietà, dicendogli: «Che le ho io fatto, signor Cavaliere?» , quel feroce continua a menar la coltella, finché il poveretto cade in terra tutto sanguinoso. Non sazio ancora, gli tira altri colpi, e finalmente lo lascia sul lastrico con nove ferite aperte, e ripara con quel suo bravo nel convento di San Nicola.

In certe vendette del Seicento è tale una raflìnata efferatezza, da non trovare facilmente riscontro ne' reati odierni. Caratteristico è il delitto commesso dalla duchessa Salviati, la quale, fatto spiccare dal busto il capo della rivale, la bella Caterina Canacci, lo mandò in dono al marito dentro una cestella di panni. Un fatto simile accadde in Roma, dove abitava la moglie di un certo ambasciatore spagnuolo. Vivendo quella dama ritirata in un monastero, le dissero che Sua Eccellenza aveva preso l'abitudine di farsi vestire da «tre more virtuosissime». La santocchia, assalita dalle furie della gelosia, a una di quelle More fece tagliare la testa. Poi «in un canestrino coperto tutto di ciambellette e di galanterie di monache», la fece porre in tavola al marito. Avendo egli mangiato una parte di quelle leccornie, inorridito, scopri «con le proprie mani l'infelice spettacolo ».

A paragone di tali atrocità, può sembrare una giustizia la seguente vendetta (di cui trovo memoria in un diario fiorentino) seguita in Milano nel 1660, a' primi di aprile. Un tal Eraclito Moroni, commissario di cavalleria, aveva per moglie una bella giovine, donna Teresa di Mena, figlia di uno Spagnuolo. Essendo durato più mesi l'amore tra don Maurizio, capitano della guardia, e lei, il marito se ne accòrse, ma dissimulò più che potè. Un lunedi dopo desinare finse di recarsi fuori di Milano; ma, fatto ritorno segretamente, diede ordine a' suoi uomini di uccidere subito don Maurizio, che egli trovò in casa sua con la donna. Di poi corse egli stesso a chiamare il curato, al quale disse di andare a confessare un moribondo. Il prete passò in mezzo agii armati e fu condotto in camera. Là vide il ganzo col capo coperto del suo ferraiuolo rosso e la dama a sedere sopra una seggiola. Al sacerdote fu imposto di confessarla; ma lei non voleva, dichiarando ch'era pronta ad entrare in un monastero. «E contrastando il confessore ad essa, uno disse : — Monsignore, non è tempo da perdere: fate presto! — Al che rispose il prete : «— Questo non è negozio da fare in fretta: si tratta della perdita del corpo e dell'anima, tanto cara a Dio». Finita la confessione, da uno le fu tirato un colpo di pistola nel petto; e poi, entrati due altri sicari, per ordine di Eraclito la finirono d'ammazzare, e il sacerdote le raccomandò l'anima. Ambedue i cadaveri, distesi sopra una tavola, furono, a ludibrio ed esempio, esposti alla curiosità di chiunque si trovasse a passare per via.

Similmente l'imperatore Ferdinando II ordinava la morte del Wallenstein; ma affrettavasi per altro — osserva il Nencioni — a far celebrare ben tremila messe per la requie eterna del suo turbolento generale!
Strano secolo è il Seicento! La pietà religiosa è commista alla più fredda ferocia. Acerrimi nemici, incontrandosi per via, si fanno a brani; e boccheggianti, prima di spirare, si perdonano a vicenda, e mandano l'estremo respiro fraternamente abbracciati. L'ira, l'odio si spengono a un tratto, di fronte all'appressarsi della seconda vita. La fede illumina improvvisamente que' cuori tenebrosi, e loro parla di perdono e di amore.

Porta alla Croce prima del 1880 ca

La giustizia umana, è in quell' età, impotente a impedire i delitti. non è da credere che il truce e quasi abituale spettacolo degi' impiccati e degli squartati fuor di porta alla Croce, alla porta al Prato, sulla cantonata di San Romolo in piazza del Granduca, e altrove, e la spietata crudeltà delle pene rendesse meno frequenti i reati. Un servitore dà una lira al boia per potere assistere più da vicino a un'esecuzione capitale; e poi lui stesso ruba e finisce per mano del carnefice, «vero monomane del patibolo», come lo definisce il Rondoni. Un falsario, capitato, nel 1672, in Pisa nelle mani di un boia non pratico, è trovato semivivo dagli assistenti. Pare un miracolo e il granduca gli fa la grazia; lo curano e vive. 
Qualcuno potrebbe supporre, cbe da quel giorno in poi divenisse un fior di virtù. Al contrario! Bandito dalla Toscana, tornò in Modena a coniar monete false! Ma questa volta il maestro di giustizia era esperto.... Le esecuzioni capitali, invece di servire di salutare esempio, rendevano le plebi insensibili alla vista del sangue e i cuori più duri. La pena si soleva eseguire, in Firenze, nel luogo stesso ove era stato commesso il misfatto; e delle volte vi si facevano assistere i complici, che dopo eran condotti in galera.
 


Mappa del Buonsignori, 1584/94
Porta alla Croce, il luogo delle esecuzioni

La maggior parte de' rei o restavano mutoli e come inebetiti, o piangevano e si disperavano all'appressarsi dell'estremo supplizio; ma vi eran di quelli che ostentavano un gran sangue freddo; che la vanità de' delinquenti, nel mostrarsi indifferenti innanzi alla morte, osserva il Rondoni, «supera quella degli artisti, de' letterati e delle donne galanti». Altri poi in que' momenti supremi provavano L'aculeo del rimorso e sinceramente si pentivano, volgendo il pensiero «a Que' che volentier perdona»; che in fondo alle coscienze più depravate si annidano alcuni buoni sentimenti, che vi rimangono, per anni e anni, come latenti e sconosciuti allo stesso individuo. Allora quegli sciagurati vedevano in tutta la loro luce l'enormità delle loro colpe, e domandavano perdono ad alta voce a Dio e agli uomini; in modo tale da muovere a pietà la folla, facile sempre ad appassionarsi, ora sdegnandosi contro un carnefice, che tarda qualche minuto a levare da questo mondo un malfattore, ora, invece, aspettando ansiosamente, che per un altro arrivi la grazia.


Francesca Rosselli, Mappa della Catena, fine del 1400.
Porta alla Croce, luogo delle esecuzioni pubbliche

Un Alessandro Ciappi, che nel 1671 con frittelle aveva avvelenato il padre e il fratello della sua «dama perché gliene avevano negato la mano, volle far la strada a piedi fino alla porta a San Pier Gattolini (oggi Porta Romana), e non in carrozza, «ad esempio di Gesù Cristo, che cosi andò al Calvario», e prima di essere giustiziato dinanzi all'uscio di casa sua e a quello di lei, implorò perdono «ad amici e nemici» ed aggiunse: «Quando andrete alla SS. Annunziata, pregate per me»! Un monetario falso, certo Francesco di Dalmazia, confessava il proprio errore, giustissima la sentenza, e dal patibolo esortava «il popolo a temere Iddio e il principe». Un altro paziente, chiedeva una messa a quanti sacerdoti incontrava per via.

In Firenze — come in Roma, in Bologna e altrove —esisteva un'antica e benemerita opera pia, che aveva l'ufficio di confortare i condannati a morte. Era la Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio, detta comunemente de' Neri, perché i fratelli si vestivano di nero, con cappa e cappuccio nascondenti la faccia. Non vi appartenevano soltanto artieri e mercanti, ma anche persone nobili e ricche, accomunate alle altre dalla religione.
Verso sera, alla spicciolata e più di nascosto che potevano, entravano in palazzo, vi indossavano l'abito della Confraternita, e passavano la notte con l'afflitto, «dandosi il cambio nell'assisterlo d'ora in ora», fino all'alba.
Mentre la città dormiva sepolta nel sonno, risonavano nella cappella i singhiozzi dell'afflitto, le dolci parole del confessore, le preci de' fratelli. Al mattino si formava il lugubre corteggio che, al canto delle litanie, percorreva le vie, che menavano al luogo dove stava eretto il patibolo.
Un fratello teneva sotto gli occhi del morituro: una tavoletta col Crocifìsso e la Vergine su fondo d'oro, creazione dell'Angelico. Arrivati, se il reo doveva esser decapitato, que' pietosi gii si collocavano intorno in modo, che egli non potesse veder la mannaia. Essi stessi di poi deponevano il corpo nella bara, e lo portavano via per dargli sacra sepoltura. Non reca maraviglia tanta pietà verso chi era posto in bando da questo mondo — talvolta, ohimè, trattavasi di un innocente! — ma con essa fa singolare contrasto la barbarie di certe ginstizie comune allora a tutti i paesi. In Firenze le streghe e gli eretici prima erano impiccati e poi arsi, legati a un palo di ferro, o a una colonna di pietra; supplizio mite, a paragone di quello più antico di ardere viva la vittima. Molti erano impiccati per ladri e poi squartati per assassini; e i quarti — orrenda parola — erano a volte mandati ne' luoghi, ove erano stati commessi i delitti.

Tale sorte toccò nel 1683 alle membra di un tal Paura e di un suo complice. Pare che agli assassini nobili spettasse il privilegio.... di essere impiccati con capestro di seta filettato d'oro. Siffatto onore toccò in sorte a un Girolamo Del Capitano e ad un Anton Maria Fittinola; e con aureo capestro fu strangolato in Tyburn, il mal vissuto figliuolo di Cristina di Nortumbria. Altra feroce stravaganza era quella di eseguire la pena sul cadavere, se il reo aveva la fortuna di morire di morte naturale prima della condanna: s'impiccava e squartava il cadavere, ovvero si ardeva! La pena più comune, applicata per i piccoli reati, era quella de' «tratti di corda ». Quella della «sferza», vibrata dal maestro di giustizia sul nudo dorso del paziente posto a cavallo di un ronzino e schernito dalla canaglia, era riserbata, come si è visto, a meretrici, ruffiani, birri e «simile lordura», per dirla con Dante. Torture insopportabili erano quelle della « fune » e della «sveglia», le quali producevano lacerazioni guariribili soltanto dopo una lunga cura. Si applicavano agli «inquisiti» per far loro confessare il delitto.
 


 

Altro martirio era quello delle «attanagliate». Una volta, «mercé le suppliclie della Compagnia» (de' Neri), a un tale vennero date in vari punti della città delle finte attanagliate nel braccio destro, nel sinistro e in ciascuna delle coscie. Ma poi a quell'omicida, caduto «tra male branche», fu recisa davvero la mano destra, nello stesso luogo, dove aveva ammazzato un canonico di Santo Stefano. Né bastò: fu poi «appiccato e squartato». La benemerita confraternita cercava di alleviare in parte i supplizi: che se barbaramente feroci erano certi delinquenti, non meno barbaro era il sistema punitivo di allora. Né occorre aggiungere che i giudizi spesso erano sommari, dati alla cieca, e per passione; e che sovente la pena era sproporzionata al reato. Nel 1627 un pover uomo, per avere «rubato una piccola bagattella», fu «sentenziato alla forca ». Ne ebbero compassione molti cavalieri, e chiesero la grazia per lui al granduca. Mercé tali e tanti intercessori, gli fu commutata la pena nella galera a vita. Alla grazia! Ma fu inesorabilmente tratto a morte un povero giovine affamato, soltanto per aver rubato un po' di pane e qualche salsicciotto! Invece Antinori — il prode cavaliere di Santo Stefano sullodato — se la cavò con soli quattro anni di prigione, ridotti a due dal granduca, che era il gran maestro dell'Ordine.

Impunito ne andò un Alberto Cepperelli (figliuolo, a quanto si diceva, naturale del cardinale Gian Carlo de' Medici), nonostante che avesse ucciso un povero contadino, che inavvedutamente, in Mercato Vecchio, gli aveva pestato un piede; e senza pena restò la brutta duchessa Salviati, nelle cui vene scorreva il sangue de' principi di Massa, mentre furono morti i sicari, che avevano assassinato la Canacci. Si metteva in prigione lo stampatore, che aveva pubblicato un libello famoso; ma si lasciava libero l'autore (il Moneglia), che burbanzoso e pettoruto passeggiava per le vie di Firenze. Così si verificava spesso il proverbio, che «gli stracci vanno all'aria». La legge somigliava alla tela del ragno, in cui restano prese le mosche, ma che è sforacchiata impunemente da' calabroni. 
I bandi criminali fiorentini, come tutte le altre leggi, si rinnovavano troppo spesso, ma con poco frutto, somigliando alle gride milanesi, rese celebri dal Manzoni. Il loro frequente ripetersi per cercare di estirpare qualche inveterato abuso; la facoltà lasciata «alli Spettabili Signori Otto» di aumentare «a loro arbitrio» i tratti di fune; e l'accrescersi della dose delle pene, che si fa di bando in bando; mostrano abbastanza chiaramente quanto fossero pur troppo vere le seguenti parole, che si leggono nella legge contro i duelli del 18 settembre 1634 ab incarnatione: «L'esperienza dimostra quanto difficilmente si provino in questo Stato i delitti». Ciò avveniva, è vero, anche altrove; ma noto che forse nessun legislatore ha fatto una confessione più esplicita della propria impotenza.


La tortura del "tratto di corda"

Gli Otto di Guardia e Balìa si occupavano, nel secolo XVII, di cause criminali comuni e della polizia della città. Infatti spettava ad essi l'ordinare — per mezzo di cartelli marmorei murati alle cantonate — a certe donne di star di casa a tante braccia di distanza da' monasteri e di non passarvi dinanzi; e il proibire che si facessero immondezze in alcuni punti più frequentati. Cosi, per esempio, essi vietavano, che si insudiciasse la fonte di piazza della Signoria col lavarvi calamai, panni o altro, o col buttarvi delle sporcizie. Gli Otto non avevano, come osserva bene il Galluzzi (IV, 254), libertà nel loro ministero, essendo variabili, mentre permanente era il segretario del granduca, che lo teneva informato, avanti della decisione, de' processi più importanti. Il loro amor proprio era certo lusingato dal vedere il loro nome, ne' bandi accanto a quello di S. A. S.; ma ad essi toccava, di fatto, non già il consigliarli, ma l'eseguirli. Dall'ordine del 9 novenbre 1623 si ricava che gli Otto dovevano impedire, che i forestieri, entrando nello Stato, portassero «senza facoltà alcuno archibuso a ruota, o acciarino più corto di un braccio», essendo queste armi sospette e da sicari; e dal bando del 26 novembre 1640, che nelle cacce di cui più avanti ho parlato, si sparassero «archibusi», col pericolo di ammazzare, invece di un leone o di una pantera, qualche innocuo spettatore. La legge del 18 settembre 1634 loro ingiungeva di proibire le disfìde e i duelli, e di punire con la forca e con la confìscazione de' beni i contravventori, i quali incorrevano «ipso facto» nell'infamia perpetua. Ma poteva essere applicata realmente una legge cosi draconiana in un secolo, in cui tanto e cosi baroccamente si scrisse sul punto di onore, sulle ingiurie, sul carico (sull'obbligo di risentirsi) e sulla mentita? È invece probabile che fosse eseguito il bando del 24 gennaio 1618, il quale puniva que' Figari, clie offendevano «le leggi divine ed umane», facendo la barba di domenica; e che si rispettasse il bando fiscale del 17 luglio 1655, che proibiva il giocare «a maschio o femmina». Esso consisteva nello scommettere delle forti somme sul sesso di una creatura ancora ascosa nell'alvo materno!
Non solamente la legge restava lettera morta, quando si trattava di importanti personaggi; ma non era nemmeno in teoria uguale per tutti. Era verbigrazia severamente proibito a' «vili meccanici» il portare armi; ma il bando del 1° marzo 1645 faceva un'onorevole eccezione per i cavalieri di Santo Stefano, sebbene allora poco si esercitassero, com' è noto, negli aspri ludi di Marte.
Un fatto poi molto immorale era questo: le leggi suntuarie, le fiscali, le doganali, le commerciali ecc. Incoraggiavano tutte lo spionaggio, con l'assegnar sempre «al notificatore palese o segreto» un terzo della multa. Né basta: perché un ladro, o un assassino, o un bandito potesse essere graziato, doveva commettere un nuovo delitto: quello di rivelare i suoi complici. Tale sistema in Firenze era, del resto, antico e comune, credo, a molti altri paesi. Cosimo III, come ho già detto, si circondava di delatori. Questi gli rivelavano futili segreti di alcova o di convento, mentre il Magliabechi non si vergognava di fargli da spia. In alcune sue lettere autografe si trovano frasi di questo genere: «Per le viscere di Gesù Cristo, dopo aver letto la presente , V. A. prego che la bruci».
Ponendo qui termine a queste succinte notizie intorno ad alcuni curiosi aspetti della
vita fiorentina nel secolo XVII, osservo, che la società di allora era molto meno morale della presente. Oggi gli Israeliti son trattati, in Italia, come tutti gli altri cittadini, non vi esistono altri schiavi che quelli soggetti all'ignoranza e a' vizi e il mal costume e la delinquenza vi hanno certamente meno seguaci. Quanto poi alle leggi.... vi è perfino chi crede che siano troppo umane! Lasciamo dunque che i codini rimpiangano i passati tempi, rallegriamoci di essere venuti al mondo in un'Italia libera e non spagnuola o austriaca, e abbiamo fede in un più prospero avvenire dell'umanità!

Tratto da:
Gaetano Imbert, La vita fiorentina nel Seicento secondo memorie sincrone (1644-1670), Firenze, Bemporad e Figlio, 1906

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