La cornice di Firenze è degna del quadro.
Non v'ha nulla che eguagli la bellezza e la varietà del sito; è un misto insuperabile di fierezza e di grazia, un contrasto de' più pittoreschi tra la pianura e la montagna, tra il marmo bianco di Carrara e la pietra turchina particolare alle cave di Fiesole (1). Ovunque, sulle rive dell'Arno, come sulle alture, delle ridenti ville dipinte di giallo, con persiane verdi o grigie; talora anche un monastero o un castello animano il paesaggio. Nelle belle sere d'estate, l'aria è d'una trasparenza che lascia indovinare sin le minime ondulazioni del terreno.
Fra la Porta alla Croce e Campiobbi, la pianura, sia all'alba, sia al tramonto, disegna un vasto giardino, un vero paradiso terrestre. Più lontano, dal lato d'Arezzo, il velo d'acqua formato dall'Arno (che si divide qui in due braccia), la riva e le colline che lo coronano possono gareggiare coi punti più pittoreschi del lago di Zurigo.
Però il viaggiatore rimane deluso non appena metterà piede a terra: la stazione di Firenze non ha nulla di monumentale, essa appartiene ad un ordine che si potrebbe chiamare "disperso"; nessuna idea dominante riunisce le costruzioni che la compongono.
La galleria, che serve di sala d' aspetto, contiene il buffet condotto dai famosi Doney e nipoti. Nel centro sta il busto di Vittorio Emanuele, sostenuto da un'aquila; più lontano i busti di Michelangelo, del Boccaccio, del Tasso, poi le eterne Danzatrici del Canova. (Non sarebbe opportuno aprire una sottoscrizione internazionale per riscattare e far sparire per sempre tutti questi esemplari di mostruosità provocanti?). La fisonomia più caratteristica della stazione era rappresentata per l'addietro dalla vecchia fioraia col colossale cappellone di paglia, che ha accompagnato tante generazioni di viaggiatori, ed ha augurato tanti "buoni viaggi". L'ultima volta che la vidi camminava colle gruccie. Poi è partita anch'essa, ma per un viaggio senza ritorno.
È necessaria una passeggiata d'orientamento prima di varcare la soglia di tante chiese, o di tanti celebri palazzi.
Firenze forma un poligono che l'Arno taglia in due parti disuguali. Sulla riva destra, la parte antica, sulla riva sinistra una specie di sobborgo, ma un sobborgo che conta monumenti quali il Palazzo Pitti, le chiese di Santo Spirito e Santa Maria del Carmine. Le strade, anche le più antiche, colpiscono per la loro estrema regolarità: egli è che in queste città italiane l'edilizia, compenetrata dei veri metodi scientifici, s'era molto presto dedicata a rendere le comunicazioni facili quant'era possibile. Eppoi, non dimentichiamolo, siamo in pianura; nessuna irregolarità di terreno avrebbe giustificato i giri ed i dedali tanto soliti nel medio evo e nelle città di montagna.
Per fortuna, anche restando sulla riva destra soltanto, una quantità di strade offre magnifiche viste sulle alture di Fiesole, che, non ostante la distanza, concorrono non poco alla bellezza di Firenze.
L'arteria principale, che divide Firenze in due metà quasi eguali, parte dalla Porta San Gallo, per metter capo alla piazza della Signoria, ed è la via Cavour, l'antica via Larga, che dopo la piazza del Duomo prende il nome di via Calzajoli. Dei viali si stendono sul posto dell'antica cinta e disegnano a perdita d'occhio le loro larghe ed elegantissime curve. Sulle due rive dell'Arno si stendono degli ampi Lungarni; questi non vengono interrotti sulla riva destra che dal lato del palazzo degli Uffizi, ove sono sostituiti da una via parallela; il fiume, e sulla riva sinistra tra il Ponte Vecchio e il Ponte Santa Trinità. Una mezza dozzina di ponti, dei quali quattro di pietra, due di ferro, congiungono le due rive.
Ciò che manca a Firenze, come alla maggior parte delle città d'Italia, un fiume degno di essa, un fiume cioè di limpide aeque, d' un corso maestoso. In estate l'Arno trascina più ghiaia che non contenga aequa, e quando parlo d'acqua intendo non un corso regolare ma delle pozzanghere di fango liquido, della vera melma. Poi tutt'ad un tratto questo fiume meschino, sprezzabile, impotente nove mesi su dodici, si trasforma in un impetuoso torrente, spumeggiante, iroso che travolge tutto quanto sta sul suo passaggio.
Firenze è anzi tutto città moderna, piena di luce e di comodità, e il forestiero, ordinariamente frettoloso e perciò molto spesso superficiale nelle sue osservazioni, può persino ritenerla una città eminentemente internazionale, il che è quanto dire volgare; ma s'egli volesse darsi la pena d'investigare, di approfondire meglio le cose, quante rispettabili tradizioni, quanti pietosi costumi non vi incontrerebbe!
Egli è che Firenze ha risolto il problema dell'architettura moderna: s'è attenuta cioè alle tradizioni locali, adattandola ai nuovi bisogni. Le sue costruzioni sono leggiere, fiere e graziose ad un tempo; le costruzioni più moderne hanno conservato lo stile antico, tranne che nella Banca Toscana, a Poggio Imperiale, e in qualche altro edifizio, in modo che l'armonia generale non n'è distrutta. Nulla di pesante ne di massiccio, ovunque un'idea chiara e arrendevole. Percorrete un po' i quartieri nuovi che trovansi dal lato del corso Vittorio Emanuele, o dal lato del viale Principe Amedeo; essi sono stupendi, quali nessun'altra città moderna possiede gli uguali; in mezzo ai giardini stanno dei monumentali palazzi di pietra grigia o gialla con sobria e ben intesa decorazione.
Per evitare le ripetizioni, definirò, una volta per sempre, il sistema delle strade fiorentine: cioè quelle vie rettilinee, uniformi, lastricate invece che selciate, coi loro stretti marciapiedi, colle case giallognole a persiane verdi. I materiali di costruzione sono magnifici; nulla di più decorativo di questa bella pietra d'un grigio ferro, che si usa anche per le colonne, per gli stipiti delle porte e le cornici delle finestre. Le decorazioni interne, cominciando dal vestibolo, sono meno felici ; v'abbondano i verdi acqua, i turchini grigiastri, mentre il rosso pompeiano vi manca assolutamente: il che deriva dall'essere gli appartamenti in genere poco rischiarati, e perciò dal bisogno di ricorrere per maggior luce ai fondi chiari.
Il passato non s'impone che in due luoghi: il Mercato Vecchio, col Ghetto e il Ponte Vecchio. Intraprendiamo un'escursione in queste venerabili regioni di cui una, mentre scrivo, non è già più che una memoria. (2)
Il Mercato Vecchio si stende (o meglio si stendeva) nel cuore stesso di Firenze, a due passi dal Battistero e dalla piazza della Signoria. Dietro ad un tal movimento tutto moderno, dietro a tali preoccupazioni d'ordine il meno elevato ed essenzialmente d'attualità, dietro ad un simile paravento di materialismo, si nascondono i ricordi storici che formano la gloria della città.
Se non si considerano che i poponi ed i finocchi, potete credervi nell'Italia contemporanea; ma scavate un po' il terreno e vi ritroverete le rovine del Campidoglio e del Foro.
Più tardi il Mercato Vecchio servì di asilo agli Ebrei (3) e formò un Ghetto analogo a quelli di Venezia e di Roma. L'associazione israelitica che ne prese possesso riunì le une alle altre tutte le parti del quartiere, per mezzo di corridoi interni, in modo che in caso d'assalto gli abitanti potessero rifugiarsi da un punto all'altro, all'insaputa degli assalitori. In seguito, molti ladri profittarono di tale disposizione per sottrarsi alle ricerche della polizia.
La sera il mercato è fantastico e spaventoso; quelle vie strette, dai lumi scarsi e fumosi, con taverne profonde, formano uno spettacolo impressionante. Però rassicurateevi: ognuno può aggirarvisi a qualunque ora del giorno e della notte senza nessun timore e pericoli di venir disturbato.
Il Ghetto e il Mercato Vecchio "furono"; da dieci anni se ne intraprese la demolizione per causa di insalubrità. Un nuovo quartiere ne ha preso il posto!
Dal Mercato Vecchio giungiamo in qualche secondo al Mercato Nuovo, un porticato elegante costruito nel secolo XVI da G. B. del Tasso. Soffermiamoci un istante nella via di "Por San Maria". Se la sua chiesa Santa Maria sopra Porta la cui campana annunciava le spedizioni militari, è scomparsa nell'incendio del 1304, più d'una delle sue ease fu testimonio d'un tatto celebre negli annali fiorentini ; l'assassinio di Buondelmonte (1215), che diede origine alle fazioni guelfe e ghibelline.
Di quando in quando vediamo ancora qualche torre del medio evo, che, già in numero di centocinquanta, furono rase nel 1250 all'altezza di cinquanta braccia, poi nel corso dei secoli demolite per lasciar posto a dimore meno feroci.
La via Por San Maria sbocca direttamente sul Ponte Vecchio, altro ricordo vivente della Firenze d'altri tempi. Fiancheggiato da negozi come per l'addietro il Ponte Nuovo di Parigi, il Ponte Vecchio è il Palais-Royal di Firenze, intendo dire la sede dei chincaglieri, gioiellieri e negozianti di musaici. Ma la rassomiglianza si limita a quest'anormale riunione, in uno spazio sì limitato, di tanti commercianti rivali tra loro. Le mostre fiorentine non hanno nulla della grandezza di quelle parigine; sono fatte specialmente per le classi medie, e pel popolo. Se non m'ingannai, il "doublé" v'occupa un posto più importante dell'oro purissimo; le pietre false sono in numero maggiore dei brillanti; ciò non toglie però che tutto quest'orpello e questo vetrame non abbiano anch'essi la loro seduzione infinita. (4)
Muntz, Eugene, Firenze e la Toscana, paesaggi e monumenti, costumi e ricordi storici, Milano, Editrice Treves, 1899
(1) Chiamasi pietra ili macigno, una specie d'ardesia che comporta due specie: la pietra bigia, di un grigio giallastro, e la pietra serena, o colombina, o turchina, d'un grigio azzurrastro. Quanto al mattone, non brilla qui che per la sua assenza.
2) Per la storia del Mercato Vecchio, consultate il volume pubblicato nel 1884 da Guido Carocci.
3) Gli Ebrei avevano ottenuto nel 1430 il permesso di stabilirsi a Firenze, ed esercitarvi l'usura coll'interesse massimo di 4 denari per ogni lira. Essi non tardarono ad arricchirsi. Si afferma che allorché furono espulsi, nel 1495, avessero guadagnato in circa mezzo siculo un 50 milioni di fiorini (Reumont, Tavole Cronologiche, 1430). Ci dev'essere però dell'esagerazione. Richiamata la colonia, in capo ad alcuni mesi, non raggiunse più l'antica grandezza; nel 1622 non contava che 495 membri; nel 1767. Che differenza dalla colonia israelita di Livorno!
(4) Bisogna aver visitato l'Italia per darsi un'idea delle infinite risorse che i marmi di colore offrono alla decorazione, e dei godimenti ch'essi procurano alla vista. I musaici esposti nelle vetrine del Ponte Vecchio c'iniziano ai trionfi effettuati da quest'arte nelle cose piccole; gli armadi, le mensole e i tavolini, gelosamente conservati in tanti palazzi reali, ci dimostrano la loro applicazione in lavori monumentali. Grazie all'abbondanza ed alla varietà dei suoi marmi, l'Italia è la patria predestinata dei musaici. Essa ha sempre preferito un tal genere di lavoro in tutti i suoi rami, dall'infinita varietà degli intarsi in pietra sino al musaico in vetro, non parlando poi del musaico in stucco. Poi, estendendosi, ha inventato l'intarsio in legno, che conta vere meraviglie dalle Alpi all'Etna. Il solo intarsio in metallo e in tartaruga le rimase sconosciuto.
Com'è noto, il musaico fiorentino si compone di pietre di colore, mentre il musaico romano e il musaico veneziano hanno per base le paste di vetro.
Quest'industria, ancor oggi così fiorente, risale ai principi del Rinascimento. L'arte d'incidere e di scolpire le materie più resistenti, l'arte della glittica, per chiamarla col suo vero nome, era infatti molto diffusa a Firenze dopo il secolo XV. Fra gli altri, Donatello ritrovò, a quanto affermasi, il segreto di lavorare nel porfido. Al principio del secolo seguente, una pleiade di maestri celebri, quali Giovanni delle Corninole, i Pier Maria di Poscia, indi i Valerio Vicentino ed altri, eseguirono pei Medici una splendida serie di carnei o d'intagli di vasi in cristallo di rocca, ecc.
Ma non fu che più tardi, pare, che s'affermò l'arte di "commettere", (d'onde il nome di commesso) i marmi in modo da formare con questi i disegni più variati. Tale procedimento derivava del resto esso pure dall'antichità classica: era Vopus sectile dei Romani, di cui ci fanno conoscere la perfezione estrema alcuni frammenti scoperti a Roma, al Palatino e nella Basilica Siciliana.
Una manifattura pubblica servì per tempo di scuola all'industria del musaico fiorentino. Questa manifattura (Regio stabilimento di Pietre durcl ha una storia antichissima e veramente brillante. Fondata nel secolo XVI, non cessò mai di creare i più ricchi mobili. Una delle sue prime imprese fu la decorazione della celebre cappella dei Principi, detta delle Pietre dure, nella chiesa di San Lorenzo. Nel secolo seguente, l'industria del musaico occupava numerosi operai. Il marchese di Seignelai, che visitò Firenze nel 1671, contò trentatrè negozi, e ammirò delle tavole lavorate pel corso di dieci o dodici anni, come pure delle statuette di diaspro che non si potevano eseguire che in sette od otto anni di lavoro. Parecchie di queste tavole venivano stimate 1000 scudi (forse 30 o 40,000 franchi!)
Notiamo la parte presa, sin dal principio, dagli artisti francesi, nei lavori della manifattura fiorentina. Tra il 1574 e il 1609, lo stabilimento granducale occupava due francesi Guglielmo di Martre, e Daniele Murvalle. In seguito divenne, per più d'un secolo, quasi il feudo d'una dinastia francese: i Siriòs, oriundi di Figeac (Lot.). Luigi Siriès ne fu nominato direttore ne] 1749; ebbe por successore suo figlio Cosimo nel 1759, che a sua volta fu seguito nel 1789) da suo figlio Luigi il giovane: l'ultimo rampollo della famiglia, Carlo, presiedette ai destini della manifattura dal 1812 al 1854. Avrei mancato ad un dovere sacrosanto per non rendendo omaggio, almeno alla sfuggita, a questi maestri che rappresentarono con intelligenza, sulle rive dell'Arno, la tradizione della scuola francese, e hanno lavorato per parte loro all'anione delle due grandi nazioni.
Nei musaici fabbricati dall'industria privata, ordinariamente lo stesso motivo si ripete all'infinito, ma essendo semplice e grazioso non stanca; si tratta d'una rosa sola, o unita ad un mughetto, o ad un miosotide, poi dei fiori più ricchi, il fiordaliso (in lapislazzuli), delle magnifiche fucsie rosse. Fiori e mazzetti sono eseguiti con un'arte perfetta; le gradazioni sono assortite con una scienza delicata. Talora ai mazzolini si alterna un frutto e un uccello, senz guastare l'estetica. Ma qui s'arresta il limite estremo delle nostre concessioni; allorché i musaicisti fiorentini tentano la natura morta e in ispecie la figura umana, in una parola allorché vogliono rivaleggiare colla pittura propriamente detta, la loro arte diventa odiosa.
Tali musaici aggiungono realmente qualche cosa al dominio dell'arte. Non esiste alcun altro mezzo che ci permetta di produrre dei bellissimi fermacarte, i bei cofanetti, i tavolini, dai colori smaglianti, inalterabili, eterni. (V. Zobi, Notizie storiche dell'origine e progressi dei Lavori di commesso in Pietre dure che si eseguinscono dall'I, e R. Stabilimento di Firenze, 2a ediz., Firenze, 1853)
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